È un viaggio davvero complesso, quello compiuto in questi giorni in Giappone e Cina dal vice-Presidente Joe Biden. Biden è chiamato infatti a rassicurare l’alleato giapponese, moderare gli atteggiamenti cinesi, riaffermare l’interesse di Washington al mantenimento degli attuali equilibri regionali e rassicurare l’opinione pubblica interna e il Congresso sulla ferma volontà dell’amministrazione di preservare la leadership statunitense in Estremo Oriente.
Ad alimentare le tensioni vi sono la disputa sino-giapponese su alcune, insignficanti isole nel Mare Cinese Orientale e la decisione di Pechino di definire uno spazio d’identificazione aereo deliberatamente sovrapposto a quello giapponese. È chiaro, però, che sono altre le questioni in discussione e che le isole abbiano oggi un valore primariamente simbolico, ancorché rilevante politicamente e ideologicamente.
La Cina cerca di capitalizzare la crescita della sua potenza e una centralità regionale evidenziata dal suo costituire ormai il partner commerciale principale di quasi tutti i più importanti paesi del Pacifico, Stati Uniti inclusi. Con gradualità, ma anche con costanza e fermezza, il regime cinese sta operando per erodere la leadership Pacifica degli Usa, utilizzando la sua posizione nella rete d’interdipendenze economiche regionali e mettendo in difficoltà il sistema storico di alleanze costruito da Washington in Estremo Oriente, a partire ovviamente da quelle con Giappone e Corea del Sud. La leadership di Pechino sembra però essere mossa pure da precise considerazioni politiche: anche nell’autoritario regime cinese vi sono evidenti scontri di potere; sfruttare pulsioni nazionalistiche e consolidati antagonismi può risultare utile all’attuale Presidente, Xi Jinping, per consolidare il suo ruolo e tenere a bada le pressioni dei militari.
Analoghe considerazioni politiche paiono informare i comportamenti giapponesi. Spendere la carta nazionalista e anti-cinese ha garantito negli anni costanti dividendi elettorali, come si è visto bene un anno fa con il successo dei conservatori di Shinzo Abe. Il governo di quest’ultimo non ha fatto mistero della sua preoccupazione per le volontà egemoniche della Cina e della conseguente necessità di allentare i vincoli costituzionali e procedere alla strada di un riarmo necessario per rendere il Giappone una credibile potenza militare e non solo economica. Una decisione, questa, presa peró anche per esercitare pressioni più forti sul partner statunitense, di cui ci si fida sempre meno.
E sono proprio gli Stati Uniti a costituire la terza variabile di un’equazione complicata e contradditoria. L’amministrazione Obama è infatti impegnata in una complessa opera di mediazione, funzionale al perseguimento di obiettivi difficilmente conciliabili e di certo non complementari. Gli Usa operano infatti per preservare la loro egemonia regionale, integrare gradualmente la Cina in un ordine che nelle intenzioni deve rimanere americano-centrico, contenere le ambizioni di potenza di Pechino e mantenere infine un sistema di sicurezza regionale fondato appunto sulla leadership statunitense e sulla disponibilità degli altri paesi, a partire dal Giappone, a delegare agli Usa stessi la propria difesa. Il tutto in un contesto in cui l’elemento primario delle relazioni internazionali e transpacifiche è oggi proprio la profonda e strutturale interdipendenza tra Cina e Stati Uniti, come evidenziato dagli scambi commerciali tra i due paesi, dagli investimenti statunitensi in Cina e dall’impegno cinese a finanziare il debito americano. Ed è questo mix di collaborazione e antagonismo ad acuire la contradditorietà delle relazioni sino-statunitensi e ad alimentare la conseguente instabilità geopolitica del Pacifico e dell’Estremo Oriente.
Il Giornale di Brescia, 6 dicembre 2013