Mario Del Pero

Il salario minimo di Obama

La diseguaglianza negli Stati Uniti ha raggiunto livelli inimmaginabili nell’ultimo quarantennio, qualsiasi sia il parametro utilizzato per misurarla, a partire ovviamente dal reddito e dalla distribuzione della ricchezza. Lo stipendio dell’amministratore delegato di una delle principali compagnie statunitensi è oggi di 350 volte superiore a quello di un suo dipendente (era di circa trenta volte nel 1980). Dal 1980 a oggi il reddito dell’1% più ricco del paese è aumentato di più del 300%; la crescita di quello dell’ 80% della popolazione che guadagna di meno non ha superato invece il 45%. Questo 1% guadagna oggi più di un quinto del reddito complessivo del paese, quando era meno di un decimo a metà degli anni Settanta. Più del 15% delle famiglie americane, infine, vive con redditi che le collocano sotto la soglia della povertà. Se misurate con questi criteri, le lancette della storia sono state riportate agli anni venti del Novecento.

Diseguaglianza di redditi e di distribuzione della ricchezza significa inevitabilmente diseguaglianza di opportunità. Come evidenziato da diversi studi, la mobilità sociale è grandemente diminuita negli Stati Uniti e il background familiare rappresenta oggi la variabile fondamentale per la carriera di un giovane. Secondo un recente studio, un cittadino statunitense ha oggi il 47% di possibilità di rimanere nello stesso strato sociale dei suoi genitori (contro il 41% della Francia, il 29% del Canada e il 15% della Danimarca). Il sogno americano sembra in altre parole infrangersi sugli scogli di una diseguaglianza crescente e strutturale.

A lungo tutto ciò è stato reso tollerabile dagli alti livelli di crescita, dalla flessibilità e mobilità occupazionale e, più di tutto, da consumi individuali e familiari garantiti dai prezzi calanti di beni importati e dal facile, facilissimo, accesso al credito. La crisi del 2007-8 ha rivelato, e fatto esplodere, le contraddizioni di un modello insostenibile di consumi a debito. E ha esposto, anche politicamente, una diseguaglianza a lungo nascosta e dimenticata, contribuendo alla radicalizzazione e polarizzazione dello scontro politico negli Stati Uniti. Perché la stessa retorica della destra populista del Tea Party si nutre di un discorso egalitario che prende di mira le elite politiche e sociali e, con esse, l’oppressivo potere federale e chi lo incarna.

Con non poca lentezza anche Obama ha compreso che è su questo terreno, quello della lotta alla diseguaglianza, che si gioca oggi una partita politica cruciale. Numerosi suoi interventi, a partire da quello celebre di Osawatomie, in Kansas, del dicembre 2011, si sono concentrati sulla necessità di promuovere misure incisive e concrete contro l’intollerabile sperequazione sociale. È quanto il presidente ha fatto anche nel suo discorso sullo Stato dell’Unione di martedì scorso, quando ha annunciato di voler aumentare, con decreto presidenziale, il salario minimo per futuri dipendenti federali, portandolo dagli attuali 7.25 dollari all’ora a 10.10 dollari. L’annuncio ha in sé un valore primariamente simbolico e coinvolgerà una percentuale assai bassa di lavoratori. Al meglio può servire come pungolo al Congresso e agli stati per approvare provvedimenti analoghi. Ed è a tutti gli effetti un provvedimento assai meno ambizioso e, diremo noi, “statalista” di molte misure adottate da Obama durante il suo primo biennio presidenziale. Serve però a intercettare una rabbia diffusa che spesso alimenta una denuncia della politica e delle istituzioni della quale il Presidente è la prima vittima. E serve a rivelare le ipocrisie di un fronte repubblicano che poco o nulla può offrire su questo terreno. Nell’auspicio che ciò possa aiutare i democratici alle elezioni di mid-term del novembre prossimo e, anche, le sorti di una Presidenza oggi assai indebolita e in difficoltà.

Il Giornale di Brescia, 1 febbraio 2014