Mario Del Pero

Gli Stati Uniti e il dilemma ucraino

La Russia potrebbe “pagare un prezzo immenso” per le sue azioni in Ucraina, ha dichiarato il segretario di Stato John Kerry. “Ci saranno dei costi” per Mosca in caso di suo intervento militare, aveva sottolineato in precedenza Barack Obama.  Questi costi e questo prezzo sono però difficili da definire; quando dalle parole si passa alle proposte concrete lo scarto è invero macroscopico e il duro prezzo che la Russia rischia di pagare si riduce alla possibile cancellazione del prossimo G8 di Sochi, a qualche esercitazione militare statunitense e a possibili sanzioni mirate contro individui e banche russe che operano in Crimea.

Le armi di cui dispongono gli Stati Uniti e i loro partner europei appaiono pertanto assai spuntate. Nessuno, va da sé, vuole un’escalation dello scontro. La Russia ha strumenti diplomatici, a partire dal veto al Consiglio di Sicurezza dell’Onu, che la proteggono da azioni multilaterali; la vicenda ucraina non può essere isolata da altri teatri nei quali il coinvolgimento e la collaborazione di Mosca sono vitali. A ciò si aggiunge un ulteriore fattore, per certi aspetti paradossale, che alimenta la tentazione dell’inazione. Se letta attraverso un prisma strettamente geopolitico, la crisi ucraina potrebbe risolversi in un paradossale successo degli Stati Uniti e dell’Alleanza Atlantica, anche laddove terminasse nel modo peggiore: con una soluzione simile a quella della Georgia nel 2008 e una secessione della Crimea dall’Ucraina. La conseguenza, infatti, sarebbe solo di affermare con forme più dirette un controllo della Russia su una regione, la Crimea, che già oggi ricade nella sua orbita geopolitica e di accelerare l’integrazione dell’Ucraina nella rete d’interdipendenze economiche e strategiche dell’occidente atlantico. Per quanto piaccia credere il contrario, la spregiudicata azione russa è quindi indicativa di una debolezza più che di una forza e il suo possibile esito ne è la conferma.

E però Obama rischia un’altra pesante sconfitta politica: sul piano interno così come su quello internazionale. A rischio è in primo luogo quella credibilità di cui il soggetto egemone del sistema internazionale abbisogna per esercitare effettivamente il suo primato. Già la fatidica “linea rossa” indicata da Obama e violata impunemente dal regime siriano danneggiò questa credibilità. Per quanto simbolica prima ancora che pratica, una sconfitta sull’Ucraina confermerebbe al mondo che l’unica superpotenza rimasta può essere sfidata; soprattutto che le parole di chi la guida, talora avventate come fu sulla Siria, possono non lasciare segno. All’indebolimento della credibilità internazionale ne potrebbe però corrispondere, per Obama e i democratici, anche uno sul piano interno. Finora il presidente è riuscito a sfruttare l’ostilità dell’opinione pubblica interna verso nuovi interventi militari per costruire un forte capitale di consenso sulla sua politica estera e di sicurezza. Il caso dell’Ucraina appare però diverso. Forse agisce il lungo lascito della guerra fredda; forse al continente europeo si applicano standard diversi; di certo, però, l’aggressività russa suscita critiche aspre all’interno degli Stati Uniti e conseguenti sollecitazioni all’azione. Non a caso è stato un candidato presidenziale come il giovane senatore repubblicano della Florida Marco Rubio a sollecitare in questi giorni una maggiore fermezza. Eppure, anche nel caso di Rubio l’aggressiva retorica si coniuga con la vaghezza e, talora, inconsistenza delle misure punitive proposte nei confronti di Mosca. A testimonianza dei dilemmi in cui si dibattono gli Usa oggi e dell’immensa difficoltà di coniugare parole e azioni.

Il Messaggero, 3 marzo 2014