Mario Del Pero

L’Italia nella nuova relazione transatlantica

Cosa aspettarsi da questo viaggio di Obama in Europa ? Che funzione potrà avere l’incontro di giovedì prossimo con Matteo Renzi e cosa ci dice del possibile ruolo dell’Italia in questa nuova fase delle relazioni transatlantiche ?

È chiaro come la crisi apertasi in Ucraina abbia radicalmente modificato i contenuti e gli obiettivi di un viaggio, quello del presidente americano, programmato da tempo. Durante il secondo mandato obamiano, i rapporti tra Stati Uniti ed Europa hanno oscillato tra indifferenza e tensione. Con gli Stati Uniti proiettati su altri teatri e vieppiù disattenti (e disinteressati) alle questioni europee; con l’Europa concentrata sui suoi problemi e irritata dalla capillare azione di spionaggio promossa dalle agenzie d’intelligence americane; con la Nato in cerca di una missione la cui chiarezza appare spesso inversamente proporzionale alla verbosità dei suoi comunicati e dei suoi “concetti strategici”.

L’Ucraina, e la spregiudicata azione russa, impongono ora una rinnovata collaborazione transatlantica. Riattivano logiche di collaborazione e interdipendenza strategica che troppo frettolosamente si era pensato di poter archiviare. Sia pur temporaneamente, riassegnano al continente europeo una centralità geopolitica che si pensava perduta.

Permangono differenze significative, interne alla stessa Unione Europea, che in questi giorni si cercherà di superare. E permane una critica di fondo di questa amministrazione alle modalità con le quali l’Europa ha risposto all’ultima crisi economica e al flebile contributo europeo alla ripresa globale. È su questi due tavoli che l’Italia può ambire a svolgere un ruolo. Ci piaccia o meno, nella gerarchia intra-atlantica e intra-europea il nostro paese rimane un peso medio. La puntata romana di Obama era pensata più come occasione per un incontro ad alto contenuto mediatico con papa Francesco che per un vertice bilaterale. E se è vero che da parte statunitense si segue con interesse e finanche simpatia la novità rappresentata dal governo Renzi, è altresì vero che analoga attenzione, e sostegno, furono espressi per Monti e Letta, figure peraltro assai più cosmopolite e di maggior esperienza internazionale rispetto a Renzi. Eppure, come per i due governi precedenti, anche per questo si apre la possibilità di costruire una relazione forte con l’alleato maggiore americano. Al netto della tradizionale, e talora stucchevole, propensione italiana a utilizzare il rapporto con Washington come veicolo di legittimazione politica, le dichiarazioni di Renzi sulla possibilità di apprendere dalle buone performance economiche statunitensi sembrano indicare una consapevolezza di questa potenziale convergenza. Le politiche d’austerity imposte dalla Germania sono state frequentemente criticate dagli Usa. È difficile credere che le recenti posizioni espresse dal primo ministro italiano in materia di vincoli europei ed eccessivo rigore contabile – peraltro in contraddizione con quell’obbligo di pareggio di bilancio introdotto nella costituzione due anni orsono – non abbiano suscitato l’apprezzamento di Washington. Dove si spera che la “ribellione” italiana possa sortire qualche risultato. Una “ribellione” ancor più importante sarebbe però quella sul dossier ucraino. Rispetto alla quale la maggior fermezza degli Usa si è finora scontrata con le titubanze e le divisioni europee. Alzare gradualmente il livello delle sanzioni contro Mosca, come vorrebbero gli Stati Uniti, vuol dire rischiare rappresaglie capaci di toccare interessi economici importanti di alcuni paesi europei ovvero accendere la miccia del ricatto energetico di cui la Russia dispone. Questo spiega la cautela adottata dall’Europa e dal suo leader tedesco: lo scarto, emblematico, tra le dichiarazioni di Angela Merkel e le (non) decisioni a oggi assunte. Una presa di posizione più coraggiosa dell’Italia potrebbe offrire uno spazio diplomatico centrato una volta ancora sulla relazione con gli Stati Uniti. Ovvero potrebbe alterare gli equilibri interni all’UE incrinando almeno un po’ quell’incontrastato predominio tedesco cui gli Usa da tempo guardano con perplessità e malcelata irritazione.

Il Messaggero, 25 marzo 2014