Mario Del Pero

Gli Usa e la “relazione speciale” con Israele

Tra deboli tentativi di mediazione diplomatica e tregue fragili si consuma l’ennesimo, drammatico capitolo del conflitto arabo-israeliano. L’operazione promossa dalle forze armate d’Israele nella striscia di Gaza risponde a diversi obiettivi. Serve a soddisfare le pressioni dell’opinione pubblica e di settori importanti del mondo politico israeliano, che chiedono di punire Hamas. Intende indebolire militarmente l’avversario, eliminandone la rete infrastrutturale (nella fattispecie il famoso reticolo di tunnel) e parte dell’arsenale di cui esso dispone. Forse, e paradossalmente, vuole rafforzare politicamente la stessa Hamas che per diverse ragioni costituisce l’interlocutore preferito di alcuni settori dell’attuale governo di Tel Aviv.

L’operazione poggia sul dispiegamento, massiccio e preponderante, della forza. Israele fa cioè leva su un’asimmetria di potenza che è andata consolidandosi negli anni e che costituisce la sua principale risorsa. Gli effetti, ovviamente, sono misurabili nella efficacia distruttiva dell’azione israeliana, il cui primo, terribile indicatore è costituito dall’elevatissimo numero di vittime palestinesi, molte delle quali civili. Una delle principali conseguenze è l’ostilità crescente, e in talune manifestazioni estrema, verso Israele di una maggioranza dell’opinione pubblica internazionale, inclusa quella europea. Di ciò lo stato ebraico, o almeno la sua attuale leadership, sembra curarsi poco. Ritiene, Israele, che la storia offra lezioni precise e inequivoche: che la sua sicurezza, invero la sua stessa sopravvivenza, sia dipesa (e dipenda) dal mantenimento di questa asimmetria di potenza e dalla disponibilità a farne uso ogni qualvolta lo si ritenga necessario. E non considera, Tel Aviv, alcun altro interlocutore che non siano gli Stati Uniti, men che meno quell’Europa attraversata da pregiudizi anti-israeliani e non di rado da veri e propri rigurgiti antisemiti.

L’unico soggetto esterno che può condizionare le scelte e i comportamenti d’Israele sarebbero quindi gli Usa, dai quali lo stato ebraico dipende militarmente. L’amministrazione Obama ha però evitato finora di sfruttare tale dipendenza per costringere Israele a fermare l’operazione e, più in generale, ad accettare una ripresa seria dei negoziati di pace. Come si spiega l’inazione statunitense? Quali sono le ragioni dello scarto tra la capacità potenziale e quella effettiva di condizionamento americano delle scelte d’Israele?

Almeno tre risposte possono essere offerte. La prima si lega a dinamiche più generali dell’azione internazionale di Washington e alla decrescente rilevanza geopolitica attribuita al teatro mediorientale. Un Medio Oriente meno importante per gli Stati Uniti, non ultimo per la ridotta dipendenza dalle sue fonti energetiche, è un Medio Oriente nel quale s’investe meno capitale politico, ché le priorità oggi sono altre. La seconda ragione ha a che fare con il processo storico che negli anni ha trasformato il rapporto tra Usa e Israele in una relazione “speciale” e per certi aspetti unica. Nella narrazione dominante negli Stati Uniti, e non solo nel mondo conservatore, Israele rappresenta un avamposto dell’Occidente democratico: una sua cittadella assediata e in perenne pericolo. A questa narrazione hanno contribuito con efficacia alcune influenti organizzazioni filo-israeliane operanti negli Usa. Non vi è nulla di scandaloso in tutto ciò: la storia della democrazia americana e della sua politica estera è scandita dall’operato, spesso assai efficace, di quelle che impropriamente vengono chiamate “lobby etniche”. Negli Usa di oggi, le lobby filo-israeliane hanno rivelato una straordinaria capacità di condizionare il dibattito pubblico e politico, come ha scoperto ben presto lo stesso Obama. Di condizionarlo e, talora, di congelarlo. Impedendo così all’unica potenza in grado di farlo di esercitare quelle pressioni su un alleato, Israele, che rimane comunque minore e che oggi sarebbero quantomai necessarie.

Il Giornale di Brescia, 28 luglio 2014