Mario Del Pero

L’America senza una grand strategy

In una lunga intervista per la rivista “The Atlantic”, Hillary Clinton non ha risparmiato critiche alla politica estera di Barack Obama. La Clinton ha esplicitamente collegato i successi delle milizie dello Stato Islamico dell’Irak e del Levante (ISIS) alla passività degli Usa nella guerra civile siriana e alla decisione di non appoggiare, e armare, le forze dell’opposizione al regime di Assad. Soprattutto, l’ex segretario di Stato ha messo in discussione la filosofia di fondo, a suo dire minimalista e appunto passiva, della politica estera obamiana. Il cui credo sarebbe incapsulato nella famosa affermazione del Presidente secondo il quale l’obiettivo fondamentale dell’azione internazionale degli Stati Uniti si debba oggi ridurre al “non fare stupidate” (don’t do stupid stuff). Hillary Clinton è stata a dir poco aspra su tale punto”: “le grandi nazioni”, ha affermato la Clinton, “hanno bisogno di principi generali e ‘il non-fare stupidate’ di certo non lo è”.

Implicita, nella critica clintoniana, è la convinzione che la politica estera statunitense manchi di una necessaria grand strategy: di una visione articolata, sofisticata e onnicomprensiva, che individui gli interessi nazionali del paese, prenda il globo come unità di analisi e costruisca un’azione politica conseguente.

Piace molto, a studiosi ed esperti di relazioni internazionali, discettare di grand strategy. Denunciare quelli statisti e politici che ne sono stati sprovvisti; celebrare chi, nella storia, ne ha avuto una e ha agito sulla scorta di essa. Quella storia rivela in realtà come spesso queste grand strategy siano stato poco più di artifizi retorici: visioni del mondo ad alto e irrealistico contenuto ideologico, non di rado funzionali, nella loro proiezione pubblica, alla costruzione del consenso. L’azione politica quotidiana è stata invece spesso reattiva se non addirittura emergenziale, in risposta a problemi inattesi, condizionata da pressioni politiche e ispirata non di rado proprio alla massima obamiana: all’evitare di “fare stupidate”, come intervenire militarmente in Iraq o in Vietnam.

Questo pragmatismo al ribasso si afferma soprattutto in periodi di risorse decrescenti – in termini di mezzi e capitale politico – come quello attuale. E spiega, quindi, la cautela e finanche l’inazione dell’amministrazione Obama in alcune crisi recenti, in particolare quella in Irak-Siria e a Gaza (meno in Ucraina, dove gli Stati Uniti hanno agito con una certa fermezza). Si tratta di un pragmatismo che ben si accorda con l’Obama moderato, centrista e professorale: leader di suo poco coraggioso o incline al rischio. Non basta però la filosofia obamiana – la sua scarsa propensione verso le visionarie grand strategy – a spiegare l’atteggiamento dell’amministrazione Usa negli odierni teatri di crisi. Per quanto sottaciute, pesano, infatti, anche precise considerazioni politiche e geopolitiche. Nel caso dell’Ucraina, le pressioni dell’opinione pubblica, orientata in chiaro senso anti-russo, e l’auspicio di sottrarre a Mosca un ulteriore tassello della sua sfera d’influenza in Europa orientale sono almeno in parte bilanciate dalla crescente marginalità geopolitica del continente europeo, ormai subordinato al teatro dell’Asia-Pacifico, in termini d’interessi economici e impegno strategico. Questo doppio condizionamento, politico e geopolitico, è ancor più visibile in Medio Oriente. La relazione e il legame speciale con Israele e il peso di gruppo filo-israeliani negli Usa condizionano in modo rilevante l’atteggiamento degli Stati Uniti rispetto alla questione israelo-palestinese, come si è ben visto nell’ultima crisi su Gaza. La decrescente centralità del teatro mediorientale – conseguenza anche del graduale affrancamento degli Stati Uniti dalle risorse petrolifere regionali – e l’indisponibilità dell’opinione pubblica americana a sostenere nuovi interventi militari spiegano a loro volta l’inazione di Washington o la limitatezza d’interventi come quello in corso in Irak.

Il tiro all’Obama e alla sua politica estera sembra essere sport assai popolare oggi, negli Usa e non solo. Vi sono però solide ragioni dietro alle scelte (e alle non-scelte) recenti degli Stati Uniti. E a dispetto di quel che crede Hillary Clinton, il “non fare stupidate” rimane assioma di politica estera dalla tradizione assai solida e dalla validità senza tempo.