Mario Del Pero

Il nuovo terrorismo

In attesa di dettagli più precisi sulla biografia dei terroristi che hanno ucciso 12 persone ieri a Parigi, e di capire se si tratti di un gruppo isolato o se esso sia legato a qualche organizzazione terroristica internazionale, sembra certo che la loro formazione sia avvenuta in una delle “guerre sante” combattute nell’ultimo decennio, nella fattispecie il conflitto civile in Siria.

E ciò ci rivela il volto sfuggente, complesso e mutevole del terrorismo odierno. La difficoltà non solo del comprenderne le matrici e le origini, ma anche le pratiche, l’organizzazione e il modus operandi. Una difficoltà che alimenta legittime paure, ma che rischia anche di scatenare reazioni emotive e irrazionali e di produrre risposte in ultimo irrealistiche e controproducenti.

Al Qaeda è sempre stata una realtà multiforme, priva di una strutturazione rigida e di una gerarchia decisionale ben definita; un brand più che un’organizzazione, con l’immagine iconica di Bin Laden a offrire un’unità simbolica a un arcipelago di gruppi, sigle, leader e realtà. Le trasformazioni dell’ultimo decennio sembrano avere accentuato questa dimensione, riducendo il peso e l’appeal del brand originale e alimentando un’ulteriore atomizzazione del terrorismo internazionale, capace, però, di renderlo ancor più pericoloso per le società europee.

Guerre sbagliate condotte con metodi sbagliati, il peso rilevante di un Islam radicale che non viene contenuto né circoscritto, il fallimento di molte politiche d’integrazione, l’alienazione di comunità d’immigrati (un giro in alcune banlieues parigine è molto istruttivo al riguardo): questi e altri fattori sono comunemente menzionati per spiegare un fenomeno – quello di una possibile jihad in Europa – di cui l’azione terroristica contro il giornale satirico Charlie Hebdo potrebbe essere la prima salve.

I dati da cui partire sono diversi. Quello principale è rappresentato da processi di radicalizzazione individuale nei quali convergono vari fattori, tra loro molto diversi. E che trovano talora sfogo in quello che sembra essere l’ultimo grande radicalismo rimasto nel mercato delle ideologie: il fondamentalismo religioso e le sue guerre sante. I numeri sono in sé limitati, finanche minuscoli; sufficienti però per colpire, fare male, catalizzare dinamiche politiche e sociali poco controllabili, come vediamo bene in gran parte d’Europa a partire proprio dalla Francia. Secondo alcune stime, i cittadini di nazionalità francese che si sono recati a combattere in Siria sono circa 800: il numero maggiore tra gli stati dell’Unione Europea. Una gran parte ha scelto di farlo per lo stato Islamico della Siria e del Levante. Di nuovo, a quanto sappiamo le scelte sono state spesso individuali e non rubricabili sotto una singola categoria: vi sono, ovviamente, giovani di origine araba e religione mussulmana; ma anche francesi convertiti all’Islam o immigrati di prima generazione alla ricerca di radici e identità. L’esperienza di guerra produce spesso un’ulteriore radicalizzazione e, ovviamente, la maturazione di competenze e capacità militari in precedenza assenti. Per quanto numericamente ridotti e frequentemente intercettati dai servizi d’intelligence, i veterani delle jihad pongono una minaccia rilevante ai loro paesi e società d’origine. Di cui possono sfruttare le maglie larghe di politiche di sicurezza che non possono essere troppo invasive e capillari pena il rischio di degenerazione in veri e propri stati di polizia; e che si muovono a proprio agio nell’usare strumenti di comunicazione e social networks che faciltano tanto la costruzione di reti flessibili quanto, appunto, l’attivazione di cellule in grado di operare con grande autonomia e indipendenza. Contro le quali si può poco, quantomeno nel breve periodo. Se non, appunto, mantenere i nervi saldi ed evitare isterismi e demagogie.