Mario Del Pero

Obama e il terrorismo

Il terribile attentato di Tunisi rivela, una volta ancora, la forza, adattabilità e mutevolezza di un terrorismo di matrice islamica che si riesce di volta in volta a sconfiggere o contenere, ma mai pienamente a debellare o ridurre all’impotenza. La persistenza della sfida terroristica, e più in generale l’instabilità di ampie parti del Medio Oriente che essa alimenta e della quale si nutre, viene viene spesso spiegata come conseguenza delle deficienze della politica estera di Obama: della mancanza di una coerente strategia statunitense, in Medio Oriente e contro il terrorismo. Solo gli Stati Uniti, si asserisce, sono in grado di alterare i termini della equazione che avvantaggia oggi il radicalismo islamico, nelle sue molteplici forme e manifestazioni: per le impareggiabili risorse militari che essi possono mettere sul campo e per il peso diplomatico necessario a coordinare un’azione multilaterale capace di coinvolgere anche i diversi soggetti regionali.

Si tratta di una lettura superficiale, parziale e spesso strumenta        le. Il “tiro all’Obama” è ormai attività popolare e facile, così come è facile offrire una spiegazione monocausale – la passività degli Stati Uniti – di fenomeni e processi estremamente complessi e ambigui. Di certo, però, la riluttanza e finanche la fatica degli Usa a offrire risposte alle diverse crisi mediorientali hanno contribuito all’acutizzazione e diffusione di queste crisi. Hanno cioè concorso a dare un’immagine di vulnerabilità e debolezza del fronte anti-terroristico, impedendo una risposta unitaria che abbisogna invece di una leadership statunitense chiara e inequivoca.

Come si spiegano, quindi, questa fatica e questa riluttanza? Quali fattori e logiche vi sottostanno? Diverse risposte possono essere offerte nello spiegare un atteggiamento, quello dell’amministrazione Obama, determinato tanto da scelte precise quanto da costrizioni, interne e internazionali, che ne limitano la libertà d’azione.

Innanzitutto, non è vero sia mancata una strategia contro il terrorismo. Al contrario, l’amministrazione Obama ha preservato e finanche esteso alcuni elementi della controversa “lotta al terrore” di Bush. Attraverso l’uso ampio ed estensivo dei droni è stata promossa un’intensa, e assai controversa, campagna di eliminazioni mirate (ispirata, tra l’altro, dal desiderio di non portare ulteriori prigioneri a Guantanamo), laddove l’azione dell’intelligence è stata estesa in modo ampio e quasi indiscriminato, provocando non poche tensioni anche con alleati storici, soprattutto in Europa. I poteri presidenziali ne sono risultati ulteriormente ampliati, portando Obama in rotta di collisione con importanti organizzazioni per i diritti civili e con figure non marginali del suo stesso partito. Sul breve periodo, almeno fino all’emergere della sfida dell’ISIS, questa strategia è parsa funzionare: non vi sono stati attacchi terroristici; i vertici di Al Qaeda sono stati decapitati; il conflitto a bassa intensità non ha provocato vittime statunitensi, risultando di fatto invisibile e quindi politicamente tollerabile.

Ma la rapida fine di quelle che con superficialità omologatrice furono ribattezzate le “primavere arabe”, la decrescente centralità geopolitica del Medio Oriente  e il pieno manifestarsi della nuova sfida dell’Islam radicale hanno rivelato i limiti e le contraddizioni di questo approccio. E hanno messo a nudo tutte le difficoltà che gli Stati Uniti hanno oggi nell’esercizio della loro egemonia. Alzare la soglia dell’intervento in Medio Oriente, dispegando forze di terra, non è praticabile: perché rischia di essere controproducente, come il caso iracheno ha ben rivelato; e perché mancano le necessarie condizioni politiche negli Usa. L’assenza d’iniziativa da parte statunitense ha però riverberi a cascata. Produce una sorta di effetto domino, in virtù del quale l’attesa, vana, di un’azione del soggetto egemone paralizza tutti gli altri. E alimenta l’impressione di forza di un avversario in realtà fragile, capace però di riprodursi e mutare pelle in continuazione, di generare processi emolutivi e di sostenere costi e sofferenze che la controparte non appare invece in grado di reggere.

Il Messaggero, 21 marzo 2015