Mario Del Pero

Un buon accordo

Un buon accordo

Il diavolo, come sempre, è nei dettagli. Nel caso specifico lo è ancor più nelle modalità d’attuazione e di monitoraggio di un accordo dai contorni ancora generali e talora vaghi. Il risultato – per Obama, per l’Iran e per l’Unione Europea – non può però essere sottostimato. La capacità di arricchimento di uranio da parte di Teheran viene significativamente ridotta; quella di produzione di plutonio a scopi militari praticamente azzerata; le pesanti sanzioni della comunità internazionale saranno rimosse solo di fronte all’ottemperamento di queste condizioni; il regime d’ispezioni si prospetta severo e rigoroso; la durata prevista di dieci anni più cinque  garantisce una lunga finestra di verifica e controllo, permettendo, se necessario, di riattivare le sanzioni.

Certo, concessioni a Teheran sono state fatte, su tutte la possibilità di continuare a usare le strutture segrete di Natanz e Fordow. Soprattutto, la difficoltà di separare chiaramente la dimensione militare da quella civile continua a rappresentare uno dei principali impedimenti all’attuazione di una seria ed efficace lotta contro la proliferazione nucleare.

L’accordo quadro è un buon accordo il cui esito dipenderà da come sarà realizzato. Importanti sono però i più ampi riverberi per tutte le parti coinvolte e soprattutto per coloro, negli Usa e in Iran, che hanno dovuto fronteggiare una forte opposizione interna destinata, quantomeno nel caso statunitense, a intensificarsi nelle settimane a venire. Gli Stati Uniti e i loro alleati europei ottengono di rallentare significativamente il programma nucleare iraniano e, facendolo, di porre le premesse per un pieno reinserimento di Teheran nel contesto internazionale e in quello regionale. La diplomazia nucleare, in altre parole, è anche propedeutica a forme d’interazione e dialogo che le vicende mediorientali hanno reso ancor più urgenti. Ponendo le condizioni per l’uscita di Teheran da una decennale marginalità si evita un ulteriore rafforzamento del suo legame con la Cina, di molto consolidatosi negli ultimi anni. E si agisce su un quadro regionale che è ormai ad alleanze variabili (e inaffidabili) come l’attivismo saudita ben rivela.

Per il regime iraniano tutto ciò significa, in prospettiva, essere reintegrato nelle dinamiche economiche globali, poter esportare il proprio petrolio e garantire standard di vita più alti a una popolazione duramente punita dalle sanzioni. E vuol altresì dire vedere riconosciuto uno status di attore chiave in Medio Oriente, peraltro conquistato sul campo anche grazie agli errori statunitensi post 2001.

Rimangono pesanti incognite, che non sono legate solo ai tanti dettagli ancora inevasi. Il regime iraniano dovrà dimostrare di voler utilizzare con attenzione il capitale diplomatico maturato, sottraendosi a tentazioni egemoniche regionali che attiverebbero immediatamente delle controreazioni, come per l’appunto quella dell’Arabia Saudita. Per quanto difficili da decifrare, gli equilibri interni all’Iran saranno a loro volta fondamentali, anche se oggi l’accordo pare costituire una vittoria per il fronte riformatore del presidente Rohani. Pur indebolita, la parte contraria all’accordo negli Usa rimane influente e combattiva come l’attivismo dei senatori repubblicani, e i recenti articoli di intellettuali neoconservatori quali John Bolton e Joshua Muravchik a sostegno di una guerra preventiva contro l’Iran, hanno evidenziato. La variabile israeliana resta infine centrale, anche se alcuni evidenti errori di Netanyahu hanno indebolito la sua capacità d’influenzare gli Usa e il negoziato.

La partita è ovviamente aperta. Ma l’accordo trovato è un chiaro passo in avanti e, anche, un evidente successo diplomatico per tutte le parti coinvolte, a partire dagli Stati Uniti.

Il Messaggero, 4 aprile 2015