Mario Del Pero

Una donna alla Casa Bianca?

Sono pronti gli Stati Uniti per una donna alla Casa Bianca? La risposta non può che essere positiva. Per certi aspetti ciò che oggi sorprende è il ritardo della politica sia rispetto ai profondi cambiamenti della società americana sia nel confronto con altre grandi democrazie occidentali. Dagli anni Settanta a oggi, la condizione lavorativa delle donne statunitensi è cambiata radicalmente, in particolare in professioni (e ruoli) tradizionalmente maschili. Tra le donne in età lavorativa, la percentuale di coloro che hanno una laurea è triplicato tra il 1980 e il 2014; maggiore è il numero di diplomate che s’iscrivono all’università (il 71% contro il 61% maschile) e maggiore, di circa il 30%, il tasso di successo accademico misurato con il conseguimento della laurea. Nell’ultimo trentennio, pur permanendo disparità e discriminazioni, il salario medio femminile è passato dal 62 all’82% di quello maschile.

La politica, si diceva, è stata più lenta a recepire e rappresentare questi cambiamenti. Ma si è anch’essa rapidamente adeguata. Attualmente il numero di donne al Congresso è di 104 (20 al senato e 84 alla Camera), corrispondente a circa il 20% del totale. Erano appena 28 agli inizi degli anni Settanta. Nell’ultimo ventennio, molte donne hanno occupato ruoli chiave nelle amministrazioni repubblicane e democratiche, anche in ambiti – come la politica estera e di sicurezza – tradizionalmente riservati agli uomini. Donne sono state tre degli ultimi cinque segretari di Stato – Madeleine Albright, Condoleezza Rice e Hillary Clinton – e due degli ultimi cinque Consiglieri per la Sicurezza Nazionale: Condoleezza Rice, nuovamente, e Susan Rice. Con Obama una donna, Janet Napolitano, ha guidato dal 2009 al 2013 il dipartimento per la Homeland Security istituito dopo l’11 settembre 2001. Nell’attuale Corte Suprema militano tre delle quattro donne che ne hanno mai fatto parte (la quarta, Sandra Day O’Connor, prima donna ad essere stata nominata nel 1982, si è dimessa nel 2006). Infine, se si ragiona per grandi aggregati, le donne pesano di più nel processo elettorale visto che costituiscono la maggioranza dell’elettorato (il 53%) e hanno dimostrato nell’ultimo ventennio una minor propensione all’astensionismo, con una partecipazione al voto di 3/4 punti percentuali superiore a quella maschile.

È quindi tempo che l’America elegga una donna alla Presidenza. Ma è quella donna Hillary Clinton? Qui la risposta si fa più difficile e l’analisi scivolosa. La Clinton parte da una posizione di oggettiva forza: dispone di risorse e di una macchina elettorale formidabili; è riuscita a suturare molte delle ferite provocate dall’aspro scontro con Barack Obama del 2008 e gode di un consenso ampio tra gli elettori del suo partito; beneficia di quello che appare essere un vantaggio strutturale dei democratici nelle elezioni presidenziali, dove la maggiore partecipazione al voto permette di mobilitare appieno tutte le componenti dell’ampia coalizione che ha fatto vincere Obama nel 2008 e nel 2012, giovani e minoranze in particolare. Ma sconta delle debolezze oggettive, ancorché oggi non facilmente quantificabili, oltre a dover fronteggiare il rischio che un qualche scandalo possa farne deragliare la corsa (le vicende dell’account e-mail privato utilizzato in vece di quello governativo e dei finanziamenti stranieri alla Fondazione Clinton potrebbero avere degli sviluppi nei mesi a venire). Innanzitutto, appare poco credibile il suo presentarsi come candidata della gente comune e della middle class ancora in sofferenza dopo la crisi del 2007. È, Hillary Clinton, esponente quintessenziale dell’establishment come evidenziato dai suoi stretti legami con Wall Street e la grande finanza. Ed è quindi candidato ancora vulnerabile a una campagna populista come quella abilmente condotta da Obama nel 2008. A maggior ragione se si dovesse prospettare una sfida, dal sapore vagamente dinastico e oligarchico, contro Jeb Bush: un nuovo Bush vs. Clinton, dopo quello del 1992. Il tasso di consenso di cui gode la Clinton è sceso di dieci punti (dal 58 al 48%) in poco più di due anni; recenti sondaggi la vedono sconfitta contro diversi candidati repubblicani in swing states cruciali come il Colorado, l’Iowa e la Virginia. A dimostrazione che fatica a intercettare una richiesta di cambiamento e discontinuità che, per quanto meno forte rispetto al 2008, potrebbe ancora condizionare le dinamiche elettorali, delle primarie democratiche così come del voto per la Presidenza.

Il Messaggero, 14 aprile 2015