Mario Del Pero

Il nuovo Freedom act

 

L’approvazione del nuovo Freedom Act da parte del Senato statunitense è stato salutato da molti come un momento di svolta, che chiuderebbe la lunga fase apertasi con gli attentati dell’11 settembre 2001 e con la legislazione per certi aspetti “d’emergenza” che ne seguì. La legge emenda e modifica il vecchio Patriot Act. E lo fa su una delle questioni più spinose e controverse: la possibilità per le agenzie d’intelligence statunitensi di ottenere dalle compagnie telefoniche i metadati delle comunicazioni dei loro utenti. Già dichiarata incostituzionale da un tribunale d’appello federale, questa attività viene ora drasticamente circoscritta e limitata: spetterà alle compagnie telefoniche stivare i metadati; le autorità federali dovranno fare richieste precise e circostanziate, caso per caso, per avervi accesso; l’autorizzazione all’utilizzo da parte dell’apposito tribunale (il FISC, la Foreign Intelligence Surveillance Court) dovrà essere più trasparente, nelle procedure e motivazioni; la Fisc stessa verrà riformata, con la rimozione della segretezza di molte sue decisioni e l’obbligo di ricorrere a pareri legali esterni su questioni nuove o di pubblico interesse.

Obama lo presenta come il migliore compromesso possibile, capace di garantire quell’equilibrio così fragile tra sicurezza e libertà, esigenze della campagna globale contro il terrorismo e tutela dei diritti individuali. Il New York Times celebra il nuovo Freedom Act come una svolta politica e culturale, che chiuderebbe quella lunga notte della ragione alimentata dalle paure del dopo 11 settembre 2001. Persino la più importante organizzazione statunitense per i diritti civili – l’American Civil Liberties Union – descrive la nuova legge come la riforma in materia più importante dell’ultimo quarantennio, a dimostrazione che i cittadini statunitensi non sarebbero più disponibili a dare “un assegno in bianco alle proprie agenzie d’intelligence”.

Ma è davvero così? Per quanto importante, anche nella sua valenza simbolica, si può considerare il Freedom Act come la chiusura di un’epoca? Come fine del lungo post-11 settembre?

Su questo è lecito nutrire dei dubbi. La riforma si concentra sugli Stati Uniti e su quella invasiva attività di monitoraggio delle comunicazioni tra cittadini statunitensi che tante polemiche ha provocato nel paese, soprattutto dopo le rivelazioni di Edward Snowden. Posto che i servizi d’intelligence americani rimangono potentissimi, e che la nuova legge lascia margini significativi di discrezionalità al loro operato, l’azione d’intercettazione e penetrazione delle comunicazioni fuori dai confini degli Usa rimane disciplinata (o non disciplinata) da altre regole. Ed è attività che non sembra preoccupare granché l’opinione pubblica statunitense. Anche perché essa continua ad essere considerata come parte di una campagna globale contro il terrorismo di cui si ritengono leciti i mezzi ed apprezzabili i risultati, su tutti la prevenzione di altri atti terroristici sul suolo statunitense. Prima di essere eletto, Obama aveva denunciato con forza lo stato d’eccezione creato sull’onda emotiva degli attentati del 2001.  Per necessità, inettitudine e calcolo, ha finito per confermarne alcuni pezzi e, paraddosalmente, per accentuarne altri, su tutti la campagna di assassini mirati attraverso i droni. Il Freedom Act è quindi un passo importante ma relativo, dentro il contesto immutato di una infinita “guerra al terrore” dove quasi tutto è lecito e permesso.

Il Giornale di Brescia, 5 giugno 2015