Mario Del Pero

Putin e noi

Il vertice bavarese del G-7 prima e l’offensiva diplomatica di Putin in Italia poi hanno concorso a rimettere la questione russo-ucraina al centro dell’attenzione politica e mediatica. Con indubbia abilità, Putin ha enfatizzato la rilevanza della Russia per alcuni dei principali stati europei e gli effetti nocivi che le sanzioni stanno avendo sulle loro economie (oltre che su precisi interessi economici). L’obiettivo evidente è quello di acuire tensioni e divisioni già esistenti sia nell’Unione Europea sia nell’Alleanza Atlantica.

Nei suoi interventi, il Presidente russo ha fatto leva su quelle che sono alcune indubbie risorse della potenza russa, che limitano l’efficacia della politica di sanzioni adottata finora. Ma sono elementi di forza bilanciati da debolezze e fragilità non di rado sottaciute o minimizzate. Anzi, nel caso russo risorse e vulnerabilità, forza e debolezza appunto, costituiscono spesso facce di una stessa medaglia: espressioni di quella che è oggi la condizione di Mosca nel contesto globale.

Tra gli elementi di forza di cui la Russia dispone – oltre al potere militare e al peso diplomatico che mai vanno sottovalutati – vi sono ovviamente le risorse naturali, su tutte quel gas naturale che è stato fondamentale per molti paesi europei nel tentativo, in parte riuscito, di ridurre la dipendenza dal petrolio mediorientale. Vi sono altresì gl’investimenti stranieri diretti che sono fluiti copiosi negli ultimi anni e che hanno coinvolto anche alcuni grandi gruppi europei. Qui l’asimmetria transatlantica è evidente, con un’Europa molto più esposta degli Usa e quindi in teoria più vulnerabile alle pressioni russe. Infine, in un’economia vieppiù globalizzata, Mosca può in teoria giocare su molteplici tavoli, facendo leva sul malumore delle potenze emergenti verso un sistema che rimane gerarchizzato attorno al nucleo euro-americano ovvero sfruttando la fame di risorse energetiche di paesi come la Cina o l’India.

È questo in fondo il messaggio che Putin sta cercando di dare, forte anche degli effetti a oggi limitati delle sanzioni e dell’ampio consenso di cui gode in patria. E però, se giriamo la medaglia, la vulnerabilità della Russia si manifesta con pari chiarezza. Quello russo rimane un paese ancora povero, come evidenziato da alcuni basilari indicatori. Il PIL pro-capite è di circa 6/7 volte inferiore a quello statunitense o tedesco; negli ultimi due anni l’economia è cresciuta in modo anemico e nel primo trimestre del 2015 è addirittura declinata (- 1.9%). L’eccessiva dipendenza dalle risorse energetiche pone la Russia in balia di un mercato che si sta rivelando straordinariamente volatile e incerto.  E un mercato dove la capacità di adattamento di molti paesi, a partire dagli Usa, ormai quasi autosufficienti, riduce sul breve/medio periodo l’efficacia della leva di cui disporrebbe Mosca. Infine, nelle gerarchie globali odierne e in un sistema ancora connotato dall’egemonia del dollaro, la Russia ha molto da perdere nell’essere esclusa da politiche di governance mondiale nelle quali forum come il G7 continuano a pesare moltissimo.

È sicuramente una storia di errori, leggerezze e fraintendimenti quella che ha connotato la crisi ucraina e lo scontro che ne è conseguito tra Russia e fronte euro-americano. Comunque si vogliano attribuire colpe e responsabilità – e chi scrive ritiene che quelle russe, a partire dall’annessione della Crimea, siano davvero rilevanti – è chiaro che nessuno ha da guadagnare da un’ulteriore escalation. Men che meno una Russia che abbisogna di tecnologia, investimenti e della possibilità di accedere a una rete di scambi e capitali il cui centro rimane ancor oggi negli Stati Uniti e in Europa.

Il Mattino, 11 Giugno 2015