Mario Del Pero

Interdipendenze e svalutazioni

Ormai da alcuni decenni gli studiosi delle relazioni internazionali – storici o scienziati politici essi siano – fanno largo uso della categoria d’interdipendenza per interpretare il sistema mondiale corrente. L’interdipendenza serve per spiegare come la politica internazionale non sia (o non sia più) un gioco a somma-zero, dove all’ascesa della potenza di un paese debba corrispondere ipso facto la diminuzione di quella di un altro in modo da preservare l’equilibrio globale. Soprattutto, parlare d’interdipendenza serve per enfatizzare come un sistema internazionale caratterizzato da un’intensificazione degli scambi e delle comunicazioni accentui la dipendenza reciproca tra i suoi principali soggetti: le scelte di uno di essi, in altre parole, hanno effetti sempre più profondi e intensi sugli altri.

L’interdipendenza può avere volti virtuosi (il commercio, gli scambi culturali, le comunicazioni) e oscuri (l’instabilità finanziaria, le pandemie, la difficoltà a circoscrivere e limitare le guerre). La sublimazione della sua intrinseca contraddittorietà la troviamo nell’equilibrio nucleare e nella condizione di reciproca dipendenza in cui si trovano le principali potenze dotate di armi atomiche, indotte a non muovere guerra alla controparte dalla consapevolezza degli immensi costi umani e materiali che un conflitto nucleare provocherebbe (e quindi paradossalmente dipendenti, per quanto concerne la propria sicurezza, dalle scelte altrui).

La decisione di Pechino di invertire rotta e procedere a un deprezzamento della propria valuta, il renminbi, evidenzia con plastica chiarezza natura, contraddizioni e rischi dell’interdipendenza. È una scelta motivata sia dalla volontà di rendere più competitiva un’economia in sofferenza e ancora dipendente dalle esportazioni sia di procedere a una prima, per quanto timida, liberalizzazione che dovrebbe permettere ai mercati di determinare il valore effettivo del renminbi come richiesto da tempo dal Fondo Monetario Internazionale e dagli stessi Stati Uniti. Ma è una scelta che produce riverberi globali e multipli. Solo per restare a un caso vicino a noi, la svalutazione del renminbi potrebbe ridurre le esportazioni tedesche verso la Cina (corrispondenti al 6.5% di quelle complessive), che costituisce oggi il quarto mercato per Berlino. E una riduzione delle esportazioni tedesche potrebbe avere effetti politici conseguenti, ad esempio sulla disponibilità della Germnia a farsi carico di ulteriori costi dentro l’area UE quali quelli sostenuti per la ristrutturazione del debito greco.

È chiaro, però, come le interdipendenze più profonde, strutturali e contraddittorie dell’ordine internazionale corrano oggi sull’asse Pechino-Washington. Il groviglio qui è immensamente complesso e ambiguo. L’interdipendenza sino-statunitense, per quanto funzionale agli interessi di entrambi i paesi, ha prodotto negli anni squilibri ampi e sempre meno sostenibili. Il mercato statunitense ha trainato la crescita della Cina, divenuta negli anni il principale esportatore negli Usa; Pechino ha vieppiù finanziato il debito degli Stati Uniti, sussidiandone di fatto quella voracità consumistica di cui si è nutrita nell’ultimo trentennio la crescita globale; molte corporation americane hanno delocalizzato la propria produzione in Cina, attratte dal basso costo della manodopera e, anche, dalle limitate tutele dei lavoratori cinesi. Le asimmetrie e i paradossi si sono però moltiplicati. E si sono intrecciati con forme di competizione geopolitiche acuite dal boom cinese, dall’aumento delle spese militari della Cina (non esteso però all’ambito nucleare) e dalla sua volontà di contestare l’egemonia statunitense sul Pacifico facendo leva su questo nuovo, e ora spendibile, potere economico.

Negli ultimi anni gli Usa hanno reiteratamente chiesto alla Cina di rivalutare il renminbi, per ridurre macroscopici squilibri nella bilancia commerciale bilaterale e conseguenti deficit statunitensi. E hanno sollecitato Pechino a contribuire maggiormente all’anemica crescita mondiale, stimolando i consumi interni e aumentando gl’investimenti.

Processi e dinamiche difficili però da gestire e pilotare, anche perché la transizione a una società di consumi di massa è estremamente complessa e comporta rischi politici di cui la leadership cinese è del tutto consapevole. La svalutazione di questi giorni va quindi a toccare un tassello delicatissimo dell’interdipendenza sino-statunitense. E ha già scatenato aspre reazioni negli Usa, anche tra figure moderate e liberali, destinate a essere amplificate dal circo elettorale nel quale il paese è ormai entrato. A dimostrazione di quanto delicata sia la gestione dell’interdipendenza: di come il confine tra il suo volto virtuoso e il suo volto oscuro sia oggi straordinariamente labile e scivoloso.

Il Messaggero, 14 agosto 2015