Mario Del Pero

La Cina e le paure statunitensi

È passato quasi mezzo secolo dal celebre viaggio in Cina dell’allora presidente statunitense Richard Nixon. Un viaggio che riaprì i rapporti tra gli Stati Uniti e la Cina comunista, interrottisi ventidue anni prima, e avviò la costruzione di una relazione destinata ad avere un profondo impatto sul sistema internazionale. Nei quarantatré anni trascorsi dal viaggio di Nixon, la Cina ha rappresentato per gli Usa diverse cose. È stata il principale fruitore dell’insaziabile mercato statunitense, che ha in Pechino il suo primo esportatore (le importazioni dalla Cina sono passate dai 3milardi di dollari del 1985 – quando la bilancia commerciale tra i due paesi era in quasi pareggio – ai 465 del 2014, con un deficit per gli Usa di 343 miliardi di dollari). Ha permesso – grazie ai beni a basso costo che entravano nel mercato statunitense – che la crescita dei consumi non alimentasse spirali inflazionistiche, garantendo un mix di bassi tassi d’interesse, facile accesso al credito e alto potere d’acquisto che negli Usa ha aiutato a preservare una pace sociale potenzialmente minacciata dai crescenti livelli di diseguaglianza e dalla stagnazione di molte retribuzioni. Ha costituito una delle principali destinazioni delle delocalizzazioni di molte imprese statunitensi, attratte dal basso costo della manodopera e dalla forte disciplina del mercato del lavoro cinese. Ha sostituito il Giappone come principale acquirente del debito degli Usa, sussidiando di fattola straordinaria capacità di consumo americana (e, con questa, la crescita cinese e quella globale). Ha intensificato gli scambi culturali con gli Stati Uniti, divenendo mercato importante di molte forme dell’entertainment statunitense (si pensi solo al successo dell’NBA in Cina) oltre che principale “esportatore” di studenti stranieri verso le università americane: quelli cinesi – 275 mila iscritti nel solo 2013-14 – sono oggi quasi un terzo del totale, con una crescita del 500% in appena quindici anni. Infine, Pechino è divenuta nel tempo competitor strategico degli Stati Uniti, in particolare nell’area dell’Asia Pacifico, e ha promosso un’aggressiva politica di accesso a fondamentali materie prime, indispensabili per la prosecuzione della sua crescita. La Cina ha rinunciato a essere grande potenza nucleare, limitandosi a un arsenale con funzione di deterrenza minima, ma ha intensificato gl’investimenti militari in ambito convenzionale e promosso alcune spregiudicate iniziative nei confronti dei paesi vicini, Giappone e Vietnam su tutti.

Quella tra Stati Uniti e Cina è quindi un’interdipendenza strettissima e contraddittoria. Un mix ambiguo di collaborazione – e reciproca dipendenza, appunto – e radicale contrapposizione. A dimostrazione di come la politica internazionale non sia (o non sia più) un gioco a somma zero, come taluni ingenuamente si ostinano a ritenere. Così la crisi statunitense del 2007-8 non rappresentò il preludio a un’ascesa di potenza della Cina e a una transizione egemonica, considerata la sua dipendenza dal mercato americano. Analogamente, le odierne difficoltà cinesi non possono che spaventare e preoccupare gli Stati Uniti. Per la possibile destabilizzazione di equilibri globali che abbisognano oggi più che mai della co-partecipazione di Pechino, così come dei capitali, degli investimenti e, anche, dei consumi cinesi. E che di tutto necessitano, fuorché di nuove tempeste borsistiche o di pericolose svalutazioni competitive e conseguenti guerre valutarie.

Il Giornale di Brescia, 27 agosto 2015

1 Commento

  1. Valentina

    Salve, tutto molto interessante. Sto effettuando una ricerca sul tema. Quali sono le fonti utilizzate riguardanti gli scambi culturali?
    Grazie.

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