Mario Del Pero

Il Fenomeno Trump

In quasi un anno di campagna elettorale pochi sono sfuggiti agli insulti e alle volgarità di Donald Trump. Il miliardario newyorchese, oggi grande favorito nelle primarie che designeranno il candidato repubblicano alla Presidenza, ne ha avuto praticamente per tutti. Ha presentato gl’immigrati messicani come “criminali e stupratori”, proponendo la deportazione in massa di quelli giunti illegalmente negli Usa (circa 11 milioni) e la costruzione di un gigantesco muro lungo il confine con il Messico. Ha sostenuto la necessità di bloccare l’ingresso negli Stati Uniti dei mussulmani. Ha offerto un ricco campionario di commenti misogini e maltrattato la nota giornalista della rete televisiva conservatrice Fox News, Megan Kelly, colpevole di un atteggiamento poco accondiscendente durante uno dei tanti dibattiti tra i candidati repubblicani: atteggiamento che Trump ha pubblicamente imputato al ciclo mestruale della Kelly (“aveva il sangue che le usciva da ogni dove”, ha dichiarato nell’occasione). Non si è fermato nemmeno di fronte alla disabilità, deridendo in una disgustosa imitazione il giornalista del New York Times Serge Kovaleski, afflitto da una forma di artogriposi alla mano e al braccio destri (Kovaleski aveva appena disvelato una delle tante bugie raccontate da Trump, quella secondo la quale nel 2001 migliaia di mussulmani erano scesi nelle strade in New Jersey per celebrare gli attacchi terroristici alle Torri Gemelle).
Nessuno dei suoi avversari repubblicani è sfuggito alle offese di Trump, che si è dilettato in particolare nell’irridere Jeb Bush e, dopo l’uscita dalla contesa di quest’ultimo, il solo vero rivale rimasto, il senatore della Florida Marco Rubio. Insulti, boutade e reiterate menzogne si sono accompagnate alla sostanziale inconsistenza ed estrema vaghezza del programma di Trump. Nel quale vi è davvero poco, al di là dei generici slogan sulla necessità di rifare grande l’America e degli attacchi viscerali contro gli immigrati e i mussulmani. Quel poco che si può trovare evidenzia peraltro una forte eccentricità rispetto ai canoni del conservatorismo statunitense, tanto che la campagna contro Trump di Fox su questo si concentra oggi: sul fatto che il miliardario sia un finto conservatore, come la sua storia e le sue numerose donazioni ai democratici ben rivelerebbero. Trump ha preso le difese di bersagli storici della destra come Planned Parenthood, la principale organizzazione no profit del paese che fornisce assistenza e servizi (inclusa l’interruzione di gravidanza) alle donne; ha accusato senza mezzi termini le scelte di politica estera dei repubblicani e l’intervento in Iraq del 2003 in particolare; ha sostenuto che il Medio Oriente starebbe meglio se Gheddafi e Saddam Hussein non fossero stati deposti; ha proclamato la sua ammirazione per Vladimir Putin.
Eppure il voto e i sondaggi gli danno ragione e la sua corsa alla nomination appare oggi inarrestabile. Come si spiega tutto ciò? Perché tutte le previsioni (incluse quelle di chi scrive) sull’inevitabile collasso della campagna elettorale di Trump si sono rivelate errate?
Almeno tre spiegazioni, contingenti e non, possono essere offerte. La prima è che il fenomeno Trump ha radici profonde nella storia e nella cultura politica del paese. Una storia segnata da frequenti mobilitazioni xenofobe contro gli immigrati abilmente sfruttate da tribuni ambiziosi e spregiudicati. E una storia nella quale la reazione a un establishment spesso corrotto e autoreferenziale ha alimentato e reso credibile quella demagogia radicale e populista di cui Trump è solo l’ultimo epigono.
La seconda spiegazione si lega alla rabbia e alla paura del pezzo di paese che si è infatuato di Trump e del suo messaggio irriverente e anti-convenzionale. Un’analisi disaggregata del voto ci mostra come il sostegno giunga, ampio e maggioritario, da tutti i segmenti dell’elettorato repubblicano. Dentro i quali, però, rilevante è lo scarto (circa dieci punti) tra il voto complessivo e quello ottenuto nella fascia di elettori maschi con bassi livelli d’istruzione e reddito, dove il sostegno a Trump è ben più ampio e marcato. Dentro un elettorato quasi esclusivamente bianco – è stato ben il 96% dei votanti alle primarie repubblicane della South Carolina, dove i residenti bianchi non superano oggi il 70% – Trump intercetta i voti di quello povero e meno istruito: la vittima principale delle profonde trasformazioni economiche dell’ultimo trentennio e della crescita esponenziale di forme di diseguaglianza economica che hanno riportato indietro di un secolo le lancette della storia. Sono diseguaglianze facilmente misurabili non solo con i tradizionali indicatori di reddito e di distribuzione della ricchezza, ma anche con quelli delle aspettative medie di vita rispetto alle quali la forbice tra ricchi e poveri è tornata a divaricarsi in modo significativo. A questo mondo – a quest’America bianca, vulnerabile, spaventata, incattivita e vieppiù minoritaria – Trump offre soluzioni semplici e bersagli facili, a partire ovviamente dagli immigrati messicani e centro-americani. Lo fa sfruttando una degenerazione e un abbruttimento del discorso pubblico e politico rispetto ai quali grande è la responsabilità del partito repubblicano. È questa la terza e ultima spiegazione del suo inatteso successo. Da un lato vi è una politica ridotta sempre più a reality: a confronto urlato e violento, dove anche le regole più basilari sembrano essere saltate. Dall’altro vi è un fronte politico conservatore che nella sua ostilità assoluta e totale nei confronti di Obama ha infine legittimato e fatto proprie posizioni estreme, come ben si è visto nell’ostruzionismo al Congresso e nell’incapacità dei suoi leader di fronteggiare l’insorgenza delle frange più radicali. Sono dinamiche, queste, che predatano il fenomeno Trump: ne sono causa e matrice ben più che conseguenza. E sono dinamiche che stanno in ultimo fagocitando un partito repubblicano responsabile di aver scatenato mostri rivelatisi infine ingestibili e incontrollabili.

Il Mattino, 28 Febbraio 2016