Mario Del Pero

Il voto in Nevada e South Carolina

I caucus democratici del Nevada e le primarie repubblicane del South Carolina chiariscono ulteriormente il quadro, ma indicano anche che la campagna per la scelta dei due candidati alla Presidenza sarà lunga e incerta. Vincono Hillary Clinton e Donald Trump; abbandona mestamente la scena Jeb Bush; tra i repubblicani, la corsa si fa a tre, con i giovani senatori Marco Rubio e Ted Cruz a sfidare Trump.
Il successo di quest’ultimo sgombra definitivamente il campo dai dubbi che ancora persistevano sulla sua capacità di tramutare la popolarità mediatica in successo elettorale, i sondaggi in voti. Trump – per quanto provocatorio, volgare, misogino e razzista – è oggi il favorito dentro il suo partito. A dispetto di tutto, il suo essere politicamente scorretto in modo ostentato e orgoglioso non nuoce alla sua popolarità, ma anzi la alimenta e consolida. La capacità del miliardario newyorchese di occupare e padroneggiare i media surroga la sua fragile organizzazione sul territorio, smontando così un altro degli assiomi storici delle primarie. Di ciò Trump potrebbe beneficiare ancor più nel proseguo della campagna, quando si voterà, spesso simultaneamente, in stati di grandi dimensioni e il messaggio generale peserà più della mobilitazione del porta a porta.
La corsa rimane però lunga e molteplici sono gli ostacoli alla candidatura Trump. Jeb Bush si è ritirato e a breve una sorte analoga toccherà a un altro moderato, il governatore dell’Ohio John Kasich. I voti, gli appoggi e le risorse dell’establishment repubblicano si stanno quindi indirizzando tutti verso Marco Rubio, che in South Carolina ha rialzato la testa dopo la battuta d’arresto in New Hampshire. Si tratta di appoggi e risorse importanti: stando ai dati di cui disponiamo l’endorsement last minute a Rubio della popolare governatrice del South Carolina Nikki Haley ha pesato molto, aiutando il senatore della Florida a dimezzare, da venti a dieci punti, la distanza da Trump. Il quale vince sì in diversi segmenti dell’elettorato, ma paga dazio con quello femminile e dipende in modo decisivo da quello maschile con bassi livelli d’istruzione e reddito, presso il quale ottiene il 42% dei voti (contro il 32 generale). In altre parole, vi potrebbe essere un recinto, ampio ma non maggioritario né particolarmente espandibile, oltre il quale il consenso a Trump non si spingerebbe e il coagularsi dei suoi oppositori attorno a Rubio potrebbe alterare le sorti della competizione o portarla fino alla convention di luglio senza che nessuno vi arrivi con la maggioranza dei delegati. Una competizione nella quale Cruz rimane un’incognita pericolosa, in virtù delle risorse e dell’organizzazione di cui dispone, anche se lo spazio politico ed elettorale utilizzabile sembra in larga misura assorbito dalla diade establishment/anti-establishment; e dove ottenere, come fa il senatore del Texas, il sostegno della destra religiosa non è sufficiente, come non lo fu per Santorum nel 2012 o per Huckabee nel 2008.
Tra i democratici il quadro appare più chiaro. Vi è una favorita indiscussa, Hillary Clinton, che è riuscita ad arginare la sfida, per molti aspetti incredibile, che le ha mosso da sinistra il vecchio senatore del Vermont Bernie Sanders. Il quale sperava in un successo clamoroso in Nevada capace di bissare quello, amplissimo, ottenuto in New Hampshire. Mezzi, organizzazione e sostegno dell’apparato sono però risultati decisivi nella vittoria della Clinton. Così come decisivi sono stati i voti dell’elettorato afroamericano che ha scelto – 76 a 22 – l’ex Segretario di Stato. La quale ha invece perso in quasi tutte le altre fasce di votanti, non solo tra i giovani under-30 (che come in Iowa e in New Hampshire hanno scelto Sanders per l’80/85%), ma anche tra gli “ispanici”. Sono dati, questi, che debbono far riflettere la Clinton e un partito democratico rivelatosi incapace di offrire ai propri elettori una scelta più ampia che non fosse quella del duo Clinton-Sanders. E sono dati che in un’ipotetica sfida tra il 45enne Rubio e la 69enne Clinton potrebbero pesare moltissimo, compensando almeno in parte il marcato gap di esperienza, preparazione e competenza che oggi ancora esiste tra i due.

Il Messaggero, 22 febbraio 2016