Mario Del Pero

Paura e rabbia nel voto in Iowa

Finalmente ci siamo. La campagna per la scelta dei candidati alle presidenziali statunitensi entra nel vivo. Oggi si vota nei caucus in Iowa. Il 9 febbraio toccherà alle primarie del New Hampshire. Poi ci si sposterà a sud e sud-ovest, in South Carolina e in Nevada fino al cosiddetto “supermartedì” del 1 marzo, quando si esprimeranno gli elettori di ben 14 stati.
Tra i democratici è una corsa a due, con la grande favorita Hillary Clinton in evidente difficoltà nel rispondere all’inaspettata ascesa del senatore 74enne del Vermont Bernie Sanders, capace di generare un entusiasmo straordinario soprattutto tra i giovani e di accumulare una quantità di finanziamenti attraverso piccole donazioni addirittura superiore a quella di Obama nel 2008. A destra, il fenomeno Trump non si è ancora sgonfiato e il miliardario newyorchese appare oggi candidato credibile nonostante una campagna elettorale violenta, politicamente scorretta e spesso grottesca nei toni utilizzati e nell’inconsistenza di molte sue proposte. Stando ai sondaggi, l’alternativa principale a Trump sarebbe rappresentata da Ted Cruz, il senatore ultraconservatore del Texas che con il suo narcisismo e la sua assenza di disciplina di partito ha alienato quasi tutti i colleghi repubblicani nei tre anni trascorsi a Washington. È probabile, però, che il voto in Iowa e in New Hampshire faccia finalmente emergere un’alternativa più presentabile rispetto al duo Trump-Cruz, nel gruppo di candidati più moderati tra i quali sembrano distinguersi oggi il giovane senatore della Florida Marco Rubio e il governatore dell’Ohio John Kasich.
Le sorprese possono però essere dietro l’angolo, soprattutto nel bizzarro voto dei caucus dell’Iowa, dirimente non tanto per chi lo vince (tra i repubblicani figure che pochi ricordano come Huckabee nel 2008 e Santorum nel 2012), ma per chi ottiene meno delle aspettative, come avvenne a Hillary Clinton nel 2008. Un risultato inferiore ai sondaggi per Trump invertirebbe la tendenza di questi ultimi mesi e aprirebbe scenari nuovi. Nel caso di Sanders, una vittoria in Iowa, accoppiata a un successo in New Hampshire, è indispensabile per continuare a sperare in quella che costituirebbe una delle più grandi sorprese nella storia elettorale americana.
Le differenze nei due campi, e tra i loro candidati, sono state sostanziali. Il dibattito tra i democratici si è distinto per civiltà e attenzione ai contenuti, laddove quello repubblicano è stato spesso ostaggio delle boutade di Trump. Sanders è molto di sinistra per gli standard statunitensi: un socialdemocratico che presenta il welfare scandinavo come modello da prendere ad esempio e che critica senza remore la politica estera di Obama. Ma è anche al Congresso da 25 anni e ha spesso dato prova di concretezza e pragmatismo.
E però, il successo sia tra i repubblicani sia tra i democratici dei candidati più radicali sembra rimandare a matrici simili. Due fattori strettamente intrecciati agiscono nel condizionare questo ciclo elettorale e renderlo così eccentrico e imprevedibile. Il primo è rappresentato dall’anti-politica: dalla critica e finanche dal disgusto verso un mondo che appare sempre più lontano dal paese reale e dai suoi bisogni. È un distacco facilmente misurabile nell’insoddisfazione, oggi ai massimi storici, verso l’operato del Congresso. A destra ciò alimenta una retorica anti-statalista dalle matrici antiche; a sinistra porta a riproporre un discorso anti-elitario e populista, anch’esso radicato nella storia e nella cultura politica del paese. È un’America che si sente tradita e ingannata quella che si rivolge a Cruz o a Sanders. Ma è anche un’America spaventata e disorientata. È questa, la paura, il secondo fattore che aiuta a comprendere quanto sta avvenendo. Paura nei confronti di un altro incomprensibile e minaccioso, sia esso l’immigrato clandestino o il mussulmano mediorientale. E paura verso dinamiche sociali ed economiche che paiono minare alle radici un sogno americano centrato sull’idea che impegno, onestà e duro lavoro paghino sempre. Agisce l’onda lunga della crisi economica del 2007-8, la precarietà di molti lavori creati negli ultimi anni, il calo del reddito medio dei nuclei familiari (- 6.5% tra il 2007 e il 2014). Pesa la memoria di un benessere, quello antecedente alla crisi, sostanzialmente irripetibile, drogato com’era da consumi a credito, bolle immobiliari e speculazioni finanziarie. Suscitano rabbia le diseguaglianze macroscopiche tra una ridotta oligarchia, uno 0.1% più ricco che controlla il 22% della ricchezza nazionale, e il resto del paese. Rabbia, paura e smarrimento favoriscono il successo di messaggi semplici, radicali e, come nel caso di Trump, demagogici e violenti. Col voto di oggi capiremo se su questi messaggi si può costruire un percorso che porta fino alla Casa Bianca.

Il Messaggero, 1 Febbraio 2016