Mario Del Pero

Trump, Rubio e i due nazionalismi repubblicani

Era l’ultima chance per Marco Rubio. Che aveva assoluto bisogno di vincere la Florida, il suo stato, per tornare a essere l’unica, credibile alternativa a Donald Trump. Rubio ha invece subito una sconfitta devastante – ottenendo ben venti punti in meno di Trump – ed è uscito mestamente di scena. Meglio è andata a Ted Cruz e, soprattutto, a John Kasich, che è riuscito a vincere lo stato di cui è governatore, l’Ohio, e a rimanere così in corsa. Una corsa a tre dove però solo un candidato, Trump appunto, ha la possibilità di arrivare alla convention di luglio con la maggioranza assoluta dei delegati necessari per ottenere la nomination. Cruz e Kasich sperano d’impedirlo per avere una convention aperta, che rimetta in gioco l’esito delle primarie. Farlo vorrebbe però dire usare una sorta di arma nucleare contro la volontà dell’elettorato. Una scelta, questa, che spaccherebbe ancor di più il partito e determinerebbe una durissima reazione di Trump e dei suoi sostenitori, con conseguenze devastanti per le chance repubblicane di riconquistare la Presidenza.
Sulle ragioni dell’inimmaginabile successo di Trump molto è stato scritto e detto. Analizzare il fallimento della candidatura di Rubio aiuta però a comprendere ancor meglio le dinamiche, bizzarre e sconcertanti, di questo ciclo elettorale. Il senatore della Florida appariva solo pochi mesi fa come il volto ideale di un partito capace finalmente di mutare, ringiovanirsi e mettersi maggiormente in asse con un paese cambiato a sua volta radicalmente nell’ultimo trentennio. Rubio doveva essere l’“Obama repubblicano” nella retorica, invero approssimativa e facilona, proposta da molti commentatori. Ispanico, giovane, figlio d’immigrati cubani, partito dal nulla, telegenico e brillante, Rubio incarnava una versione del sogno americano alternativa a quella obamiana. E la sua retorica, per quanto bicromatica e spesso grossolana, su questo ha sempre puntato: sulla sottolineatura della grandezza e unicità degli Stati Uniti, unico paese al mondo capace di garantire a tutti le possibilità avute da un umile figlio di un barista cubano. Le parole, orgogliosamente nazionaliste, di Rubio sono state però travolte dall’altro nazionalismo, quello di Trump. Un nazionalismo rabbioso e feroce: ben più cupo e violento di quello solare e ottimista di Rubio; ben più capace d’intercettare le paure e il disorientamento dell’elettorato repubblicano. Il linguaggio di Trump ha dimostrato di saperla capire e mobilitare la pancia di questo elettorato. Per quanto vaga e mutevole, la sua proposta politica – centrata su una miscela di aggressivo nazionalismo e forte protezionismo – è piaciuta di più a un pezzo d’America che giudica severamente l’azione di governo dell’ultima presidenza repubblicana, quella di George Bush, alla quale Rubio sembrava invece ispirarsi. La dimensione identitaria del rigetto di Rubio – il rifiuto di ciò che egli è e rappresenta – s’intreccia così con quella politica. Rilanciare un’agenda d’interventismo e libero-scambismo globali, come ha provato a fare il senatore della Florida, cozza contro l’avversione a nuove avventure militari e, ancor più, contro il convincimento in parte fondato che le scelte economiche abbiano danneggiato un pezzo d’America, che a Trump ora guarda come sua ultima risorsa.
Non si tratta di un pezzo d’America marginale, peraltro. Il grande dato delle primarie repubblicane è la straordinaria crescita della partecipazione elettorale. Persone che prima non si recavano alle urne hanno trovato in Trump una ragione per farlo. In un’eventuale sfida con Hillary Clinton, ormai quasi certa della candidatura democratica, il miliardario newyorchese partirebbe chiaramente sfavorito. Ma può spendere una carta rilevante, soprattutto in quegli stati post-industriali a maggioranza bianca dove la Clinton ha dimostrato di non riuscire a mobilitare gli elettori giovani e di faticare immensamente con quelli a basso reddito, che invece votano a larga maggioranza per Trump. Se la politica ha conservato un minimo di razionalità, una Presidenza Trump è inimmaginabile. Ma di ciò non possiamo ora essere certi e per molteplici ragioni Hillary Clinton appare il bersaglio ideale per il violento populismo di Donald Trump e della sua legione di sostenitori.

Il Messaggero, 17 marzo 2016