Mario Del Pero

Obama, Cuba e il peso della storia

C’ è un che di ironico, di quasi paradossale, tra la portata storica del riavvicinamento tra Cuba e gli Stati Uniti e il basso rischio politico che Obama in fondo corre nel promuoverlo. I tempi erano ormai maturi per superare quest’ultima reliquia di un’epoca che fu e che non ha più alcuna ragione d’essere. Per certi aspetti la sua guerra fredda con gli Stati Uniti Cuba è riuscita a vincerla, resistendo a più di mezzo secolo di pressioni, embarghi e operazioni clandestine. Ma questa vittoria – per quanto importante in termini simbolici – poco ha potuto contro vincoli internazionali che si sono fatti, nel dopo guerra fredda, ancor più stringenti e ineludibili. Cuba ha cioè bisogno di essere integrata entro una rete globale di scambi, investimenti e capitali nella quale l’interlocutore fondamentale non potrà che essere il vicino nordamericano.
È questo il primo fattore che spiega la riconciliazione in atto tra l’Havana e Washington. Il secondo fattore è la politica statunitense, che ha ormai cessato di essere ostaggio della questione cubana. Una questione in sé marginale, questa, che le circostanze hanno però sovraccaricato di significato simbolico e politico. Da un lato vi era una comunità di esuli anti-castristi in uno stato elettoralmente cruciale come la Florida, del cui sostegno entrambi i partiti avevano bisogno. Dall’altro, la ribellione cubana rappresentava una pesante umiliazione per il gigante statunitense: nell’immaginario Cuba aveva a lungo rappresentato una sorta di appendice degli Usa. E fino alla rivoluzione del 1959 aveva costituito quasi un protettorato di Washington: un paese a sovranità pesantemente limitata. Entrambe queste condizioni sono infine scomparse. La comunità cubana della Florida è politicamente meno importante; soprattutto è divisa al proprio interno, con una nettissima frattura generazionale. I sondaggi ci dicono oggi che quasi il 90% dei cubano-statunitensi sotto i 30 anni d’età sostengono un’apertura a Cuba ancora osteggiata dal 60% di quelli che hanno più di 65 anni. Nel mentre, l’ossessione statunitense per la sfida castrista è andata anch’essa scemando; nella globalità del post-guerra fredda l’anticomunismo e il socialismo in salsa cubana sono divenuti entrambi cimeli di un passato privo di significato.
Di un passato che però sembrava legare le mani a entrambe le parti e metteva sulla difensiva gli Stati Uniti nell’emisfero occidentale. È questa la terza e ultima matrice del processo in corso. La rigidità statunitense verso Cuba è stata vieppiù criticata dalla quasi totalità dei paesi latino-americani; gli Usa si sono trovati così isolati e sulla difensiva. Riaprire a Cuba serve anche a riposizionare gli Stati Uniti nel contesto delle relazioni inter-americane: è parte di una diplomazia regionale della quale i rapporti cubano-statunitensi sono solo un tassello.
La forza della storia spingeva fatalmente verso questo riavvicinamento. Ma dentro questa storia va inserita anche la figura di Barack Obama. Che ha dato dimostrazione di pragmatismo e concretezza. Che ha speso con efficacia il fascino che ancora proietta in gran parte del mondo: il suo costituire una straordinaria icona globale, come l’accoglienza riservatagli dalla popolazione cubana ha rivelato. Che ha fatto leva sulla dimensione razziale – e la questione della razza ha pesato moltissimo nella storia delle relazioni tra i due paesi – per potersi credibilmente presentare come il presidente capace di porre fine alla lunga era di dominio quasi coloniale e di rivolta anti-imperialista che ha segnato i rapporti tra Cuba e gli Stati Uniti.

Il Giornale di Brescia, 22 marzo 2016