Hillary Clinton rimane certamente favorita per la conquista della Presidenza in novembre. Le incognite sono però molte: le primarie hanno smentito certezze ritenute inscalfibili e impongono oggi estrema cautela nel formulare previsioni; la candidata democratica è visibilmente vulnerabile; i repubblicani, infine, sembrano aver finalmente fatto pace con l’idea di avere Donald Trump come loro candidato (è in fondo il naturale prodotto del tipo di messaggio che essi stessi hanno veicolato in questi anni) ed essere pronti a ricompattarsi in vista della convention di luglio.
Tre sono le principali fragilità della Clinton, che il suo avversario cercherà di enfatizzare e sfruttare – con spregiudicatezza e aggressività – nelle settimane e nei mesi a venire. La prima è la scarsa, scarsissima fiducia dell’elettorato nei confronti dell’ex Segretario di Stato. Secondo un recente sondaggio Reuters solo il 20% degli americani la considera onesta e degna di fiducia; ben il 60% la pensa altrimenti, con un restante 20% d’indecisi. È uno scetticismo, questo, che si estende allo stesso elettorato democratico, dove la percentuale di chi non si fida della Clinton è altissima, oltre il 40%, e il rischio di una defezione in novembre di chi le ha preferito Sanders, soprattutto tra i giovani, assai elevato. Certo, quello che si prospetta è uno scontro tra due aspiranti presidenti assai deboli: Clinton e Trump sono i candidati meno apprezzati dall’elettorato nella storia degli ultimi dieci cicli presidenziali. Il miliardario repubblicano batte ancor oggi tutti i record immaginabili (il 70% delle donne ne ha un’opinione negativa, ad esempio). Ciò avviene però in un contesto dominato da un forte populismo anti-politico, nel quale una esponente dell’establishment come la Clinton è facilmente attaccabile tanto da rappresentare probabilmente il miglior avversario possibile per chi, come Trump, sulla denuncia della vecchia politica ha costruito le sue fortune elettorali.
L’immagine molto negativa dei due candidati riflette a sua volta la marcata polarizzazione politica del paese. Gli Stati Uniti sono oggi divisi lungo una faglia sempre più ampia e meno suturabile. Detto altrimenti: la mobilità degli elettori da un campo all’altro si è grandemente ridotta, laddove il mitico voto indipendente tutto si rivela essere meno che centrista e moderato, ed è anzi spesso catturabile alzando la soglia retorica dello scontro e della polemica, come Trump ha dimostrato di saper fare. È questa la seconda, chiara debolezza della Clinton. Se la sfida fosse solo sulla preparazione, la competenza e, anche, la basilare civiltà dei comportamenti e del lessico utilizzato non vi sarebbe ovviamente partita. Così però non è. I due campi sono cristallizzati nelle loro posizioni, come ben rivelano i sondaggi rispetto al voto di novembre (che vedono al momento la Clinton avanti, ma di pochissimo) e, ancor più, quelli relativi al tasso di apprezzamento o meno dell’operato di Obama, da anni fermi entro una fascia di oscillazione assai più limitata che in passato (tra il 45 e il 50%), a segnalare la cronica fissità della spaccatura esistente.
Per vincere le elezioni diventa quindi necessario mobilitare appieno i propri bacini elettorali. E su questo troviamo la terza e ultima fragilità della candidata democratica. Che fatica a trascinare alle urne una fetta dei simpatizzanti democratici. E che ha di fronte un avversario capace di recuperare alla causa un pezzo, perduto, dell’elettorato repubblicano. È questo uno dei dati più sorprendenti delle primarie che hanno incoronato Trump: l’altissimo tasso di partecipazione elettorale, più che raddoppiato rispetto al 2012. Trump asserisce di poter portare alle urne milioni di nuovi elettori, compensando così la perdita di quelli allontanati dal suo messaggio violento, razzista e misogino. Si tratta di un’esagerazione e le prime analisi rivelano come la crescita dei votanti repubblicani alle primarie non sia destinata a tradursi automaticamente in un analogo aumento alle presidenziali. Trump pare però poter dare risposta a uno dei problemi che afflissero Romney nel 2012 ossia l’alto tasso d’astensionismo in un segmento non marginale dell’elettorato repubblicano: quello bianco con bassi tassi d’istruzione e reddito, che nel magnate newyorchese sembra aver trovato il suo nuovo profeta.
La corsa alle presidenziali di novembre è quindi lunga e incerta. E Hillary Clinton ha oggi più di una ragione per essere preoccupata.
Il Mattino/Messaggero, 19 Maggio 2016