Mario Del Pero

Obama e Hiroshima

Barack Obama sarà il primo presidente nella storia degli Stati Uniti a recarsi in visita a Hiroshima. Non si scuserà, Obama, nell’occasione, per il bombardamento dell’agosto 1945. È anzi probabile che la userà per ribadire l’inevitabilità di quella scelta; per tornare su un tema spesso presente nei suoi discorsi, a partire da quello pronunciato in occasione del conferimento del Nobel per la pace: la terribile necessità di essere pronti a far ricorso alle le armi, a usare la guerra e a scendere nel male, quando chiamati a farlo. Non basterà, questo, a placare le critiche di chi, dentro gli Stati Uniti, accusa il Presidente d’insufficiente patriottismo: di essere più incline a sottolineare colpe ed errori degli Usa che a celebrarne la grandezza e i meriti storici. Ma in quest’ultimo biennio presidenziale, Obama ha dimostrato di prestare poca o nulla attenzione a polemiche tanto aspre quanto spesso pretestuose; ad attacchi non di rado rozzi e pregiudiziali.
Che obiettivi si pone il Presidente e cosa spera di ottenere con questo viaggio e con un gesto la cui valenza simbolica non può comunque essere sottostimata? Tre sono le possibili risposte. La prima si lega a considerazioni di ordine geopolitico e al mutevole contesto dell’Estremo Oriente. Dove l’ascesa della potenza cinese, l’assenza di un ordine istituzionalizzato e il riaffiorare di antagonismi regionali sembrano rafforzare il ruolo di Washington come garante ultimo della sicurezza e della stabilità dell’area. Il viaggio a Hiroshima serve sì a ribadire la natura speciale della relazione tra Stati Uniti e Giappone. Ma serve anche a enfatizzare la possibilità di superare il retaggio che informa le retoriche nazionaliste di chi soffia sul fuoco delle tante tensioni interstatuali ancora esistenti: tra Cina e Giappone; Coree e Giappone; Vietnam e Cina. Andando a Hiroshima, Obama non propone certo di cancellare quella storia. Invita però a evitarne un uso strumentale, portando a modello una relazione, quella tra Stati Uniti e Giappone, che – si afferma non senza eccessi retorici – dalle ombre della storia si sarebbe in fine emancipata.
Il secondo obiettivo di Obama è legato al nucleare medesimo. Sotto la sua Presidenza, gli Usa si sono fortemente impegnati per ridurre gli arsenali e per contenere una proliferazione che – con i programmi di Iran e Corea del Nord – sembrava preludere a una nuova corsa agli armamenti. Agisce, qui, un mix d’interesse e d’ideali. Al genuino desiderio di liberare il mondo dalle armi nucleari corrisponde la piena consapevolezza che anche un limitato deterrente nazionale può ridurre la rilevanza (e la spendibilità) del principale privilegio di potenza di cui godono gli Stati Uniti: la loro indiscussa superiorità militare. La visita a Hiroshima servirà in altre parole per rilanciare una retorica anti-nucleare funzionale agli obiettivi strategici statunitensi, congruente con il discorso, ostentatamente idealista, di Obama e, anche, utile elettoralmente ai democratici, visto che sarà contrapposta alle irresponsabili considerazioni di Trump sull’opportunità che Giappone e Corea del Sud si dotino di loro deterrenti nucleari.
E questo ci porta al terzo e ultimo elemento: l’immagine internazionale degli Usa e del loro leader. Il viaggio a Hiroshima è in una certa misura la degna conclusione di una parabola iniziata con il discorso del Cairo del giugno 2009, quando Obama tese la mano al mondo mussulmano. È parte cioè di una retorica internazionalista e collaborativa che ha qualificato il lessico e la simbologia della politica estera obamiana. E che ha contributo tanto alla popolarità del Presidente quanto al ripristino dell’immagine globale degli Stati Uniti durante i suoi due mandati.

Il Giornale di Brescia, 11 maggio 2016