Mario Del Pero

Convention e violenze

Si apre la convention repubblicana che incoronerà Donald Trump. E si apre in un clima sovraccarico di tensioni e rabbia; con altri poliziotti morti, questa volta a Baton Rouge in Louisiana, ove un nero era stato ucciso dalle forze dell’ordine solo pochi giorni fa. In un clima, cioè, dove la faglia della razza – uno dei principali fattori che ha mosso e lacerato la storia degli Stati Uniti – torna a farsi profonda e quasi incolmabile: dove l’America si trova di nuovo divisa e contrapposta. Questo clima Trump lo ha cavalcato e alimentato: ne è stato tanto il prodotto quanto la causa. Il candidato repubblicano non ha avuto scrupoli nel gettare benzina sul fuoco e nello sfruttare il rabbioso malcontento di un pezzo d’America bianca, spaventata, arrabbiata e in sofferenza. Quest’America – dove chiaramente sovra-rappresentato è l’elettorato con bassi livelli d’istruzione e reddito – si è trovata sistematicamente dalla parte dei perdenti in quei processi d’integrazione globale che negli ultimi trenta/quarant’anni gli Usa hanno guidato e, spesso, sfruttato. Ha visto scomparire – delocalizzate all’estero – le opportunità di lavoro in un settore manifatturiero che pagava bene e offriva, a molte famiglie, il vettore primo di un’ascensione sociale che pareva sostanziare la retorica del sogno americano. Si è trovata a fare i conti con programmi di sostegno alle minoranze che l’hanno fatta sentire discriminata e punita. Ha reagito perplessa a trasformazioni culturali– si pensi solo al tema dei diritti degli omosessuali – che hanno messo in discussione certezze binarie e stravolto ruoli sociali e famigliari consolidati. E osserva con sgomento, questa America, la trasformazione demografica di un paese nel quale cresce il peso d’ispanici e asiatici: un paese che sembra destinato a essere sempre meno bianco e, anche, cristiano. La parola d’ordine che domina i raduni trumpiani è quella del tradimento: tradimento dell’America vera da parte di una politica corrotta e autoreferenziale; tradimento di valori centrati su ancore identitarie vissute come immutabili e fisse, ma oggi contestate o rigettate; tradimento della potenza americana per mano di leader deboli e pavidi che ne permettono l’umiliazione quotidiana su scala mondiale.
È una messa in stato d’accusa di un’intera classe politica, come ben si è visto durante le primarie repubblicane. Che Trump sfrutta e rilancia con la promessa incapsulata nello slogan della sua campagna: “rendere nuovamente grande l’America” (Make America Great Again). Poco è detto su come concretare questa promessa. Il programma del candidato repubblicano è in realtà un pot-pourri incoerente e vago. Un rozzo guazzabuglio fatto di protezionismo e roboante nazionalismo, dove si promette una ritirata dalla globalizzazione libero-scambista e la contestuale disponibilità a ricorrere in modo spregiudicato e ampio a quello strumento, la forza militare, che ancor oggi distingue gli Stati Uniti dal resto del mondo, rendendoli potenza superiore del sistema. Sulla praticabilità di una simile azione è lecito nutrire molti dubbi; così come sulle effettive chances di vittoria di Trump in novembre. I pozzi del confronto politico – oggi feroce e irrimediabilmente abbruttito – sono stati però in larga parte avvelenati. E le conseguenze non possono essere minimizzate, anche a prescindere dall’esito finale del voto. Dal quale gli Stati Uniti sono destinati a uscire ancor più spaccati. Con un’America trumpiana probabilmente non maggioritaria ma rilevante e in grado di tenere in ostaggio il paese; con un sistema internazionale frastagliato e privo dell’ordine che il soggetto egemone era in grado di garantire e spesso imporre; con un partito repubblicano ancor più radicalizzato e ostruzionista. E con il rischio, oggi davvero molto concreto, che le violenze cui stiamo assistendo in questi giorni continuino e s’intensifichino.

Il Mattino 18 luglio 2016

1 Commento

  1. Federic

    Complimenti al Professor Del Pero per l’analisi lucida della situazione

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