Mario Del Pero

Il partito di Donald Trump

Coerente con il personaggio che ha incoronato, la convention repubblicana di Cleveland tutto è stata fuorché rituale e ordinaria. Dal caso di plagio del discorso della moglie di Trump, Melania, agli scontri del primo giorno sulle modalità di voto, dagli attacchi scomposti a Hillary Clinton alle urla contro Ted Cruz – l’avversario delle primarie che non ha dato il suo endorsement a Trump – fino all’aggressiva chiusura del candidato repubblicano, diversi sono stati i momenti circensi e sopra le righe. Momenti, questi, che hanno rievocato le vecchie, fumose e aspre convention di una volta più che quelle asettiche e controllate dei tempi recenti. Per i tanti critici, la quattro giorni di Cleveland ha mostrato una volta di più l’impresentabilità di Trump, oltre che l’impatto divisivo e polarizzante della sua ascesa, sul paese e sullo stesso fronte repubblicano. I sostenitori del miliardario newyorchese, al contrario, hanno letto questa convention come rivelatrice una volta ancora della forza di Trump e del suo messaggio politico: come espressione di una spontaneità fresca e genuina, da contrapporre alla politica inquinata e autoreferenziale, ovviamente rappresentata nelle fattezze di Hillary Clinton (per la quale molti intervenuti hanno addirittura invocato la galera).
Può darsi che Cleveland sia stata entrambe le cose, come da vecchia, buona politica: teatro e strategia; arena e compromesso; urla e mediazione. La gran parte dei commentatori ha letto la convention come l’ultimo momento buono per ricompattare il partito repubblicano; come l’ultima chance a disposizione di Trump per ripulire la sua immagine e moderare il suo messaggio. Per divenire, in altre parole, un candidato normale. Ma è così? Per sperare di vincere, Trump ha (o, meglio, aveva) davvero bisogno di “de-trumpizzarsi”?
Numeri alla mano e con Cleveland alle spalle, è lecito nutrire più di un dubbio. I repubblicani partono con un handicap pesantissimo, in parte strutturale e in parte contingente. Si confrontano con una mappa elettorale che nelle elezioni presidenziali si è fatta vieppiù sfavorevole, con i democratici certi di avere dalla loro più grandi elettori (dai 20 ai 40, a seconda delle stime) di quelli garantiti dagli stati a maggioranza repubblicana. E hanno, i repubblicani, davvero poche chances di migliorare il risultato del 2012 presso una minoranza ispanica decisiva in stati ancora in bilico, come il Nevada e il Colorado, ma che Trump ha ulteriormente allontanato con le sue posizioni xenofobe. Può sperare di vincere, il candidato repubblicano, solo rischiando di perdere ancor più largamente, subendo quella che sarebbe una delle più pesanti sconfitte della storia. Deve, insomma, raddoppiare e rilanciare: sovraccaricare ancor più il suo messaggio, con l’obiettivo di mobilitare appieno un elettorato bianco e radicalizzato che gli potrebbe consegnare stati decisivi della Rustbelt postindustriale, come l’Ohio e la Pennsylvania, o di un sud atipico e assai composito, quali la Virginia, la North Carolina e la stessa Florida. Ecco perché non debbono sorprendere il tono estremo di molti interventi sentiti a Cleveland, la reiterata demonizzazione di Hillary Clinton, gli attacchi ai movimenti neri, la natura quasi mono-razziale della convention (più dell’80% degli speakers era bianco). E non debbono sorprendere le parole di Trump sulla politica estera e il suo ostentato rifiuto dei vincoli imposti dalle alleanze degli Usa, a partire dalla stessa Nato. Il candidato newyorchese parla a un elettorato che conosce bene; offre un messaggio scopertamente nazionalista con cui promette di ripristinare la grandezza dell’America, liberandola da costrizioni interne e internazionali; denuncia la debolezza e la corruzione di chi ha guidato il paese. E sa, Trump, che i rapporti di forza tra lui e il partito si sono almeno temporaneamente invertiti. Che il suo elettorato – quello che lo ha portato alla nomination – i repubblicani li tiene in fondo in ostaggio, come la processione a Cleveland/Canossa di molti leader congressuali ha ben evidenziato. Sa, insomma, che dopo Cleveland e fino all’8 novembre il partito repubblicano sarà il partito di Donald Trump.

Il Messaggero, 22 Luglio 2016