Mario Del Pero

Sulla crisi degli studi nordamericani in Italia

Mario Del Pero (SciencesPo, Parigi) e Ferdinando Fasce (Università di Genova)

Sulla crisi degli studi nordamericani in Italia

Sono passati poco più di tre anni dalla scomparsa di Raimondo Luraghi, uno dei padri fondatori dell’americanistica in Italia. Luraghi, la cui celebre Storia della Guerra civile compie quest’anno mezzo secolo di vita, contribuì a rendere l’università di Genova uno dei centri fondamentali per gli studi di storia degli Stati Uniti, oltre che l’unico spazio dove per alcuni anni furono attivi contemporaneamente un dottorato di ricerca e una Fulbright Chair destinata a studiosi statunitensi che venivano a insegnare in Italia. Dottorato e Chair che oggi non esistono più; come non esiste più la cattedra di Luraghi. Gli studi e gli insegnamenti di storia nordamericana a Genova sono ridotti a un paio di contratti rinnovabili di anno in anno. Situazione simile esiste in gran parte d’Italia, dove di cattedre ne sono rimaste quattro. In una recente tavola rotonda sullo studio della storia americana fuori dagli Stati Uniti, al convegno della Organization of American Historians (OAH), due docenti di Cambridge e Oxford, Andrew Preston e Jay Sexton, hanno lamentato la debolezza dell’americanistica nei rispettivi dipartimenti. Un rapido sguardo ci mostra però come il numero di docenti di storia degli Stati Uniti in ognuna delle due università sia più o meno equivalente al totale di quelli presenti in Italia. Questi ultimi – raggruppati nel settore SPS05, “Storia e Istituzioni delle Americhe”, dove hanno casa anche i latino-americanisti – sono oggi undici in totale: quattro professori ordinari, sei associati e un solo ricercatore. Nessuno si trova in un’università a sud di Roma. Alcuni insegnamenti – invero molto pochi – sono tenuti da studiosi che hanno delle competenze americanistiche, ma che per scelta o necessità hanno optato per un altro settore disciplinare, principalmente “Storia Contemporanea” (MSto04) o “Storia delle Relazioni Internazionali” (SPS06). Sono però casi assai rari e sempre più marginali.
La situazione è disarmante. Questo a dispetto della popolarità degli insegnamenti di storia degli Usa tra gli studenti e dei risultati scientifici ottenuti dai membri della piccola comunità nordamericanistica italiana (tra i quali si trovano molti vincitori dei premi dell’OAH per i migliori libri e articoli in lingua non inglese). E a dispetto, anche, di un’attenzione pubblica per gli Usa che in Italia rimane assai viva.
Proprio dall’ultimo dato, la persistente fascinazione per gli Stati Uniti, è utile partire per provare a spiegare la crisi dell’americanistica italiana: lo scarto, invero macroscopico, tra quanto si parla di Usa in Italia e come se ne parla; tra la presenza pubblica – pervasiva e talora quasi ossessiva – delle cose statunitensi e quella accademica – limitata e decrescente. È chiaro come gli Stati Uniti stiano nella nostra quotidianità più di qualsiasi altro paese. I loro prodotti culturali invadono le nostre case. La loro politica, spettacolare e talora circense, continua ad ammaliarci. Le molteplici proiezioni della loro egemonia – contestata e sfidata quanto si vuole – investono direttamente e indirettamente le nostre vite. Con l’America, come continuiamo a chiamarla pur sapendo che non è politicamente corretto farlo, sentiamo tutti di avere ancora un’intima familiarità. E pensiamo quindi di poterne parlare – e magari scrivere – senza conoscerla o averla studiata davvero. Siamo un popolo non solo di commissari tecnici, ma anche di americanisti. Basta un rapido sguardo alle pagine dei principali quotidiani, e ai loro editoriali, per comprenderlo. Nessuno studioso serio di politica estera statunitense si sognerebbe, ad esempio, di usare oggi la categoria di “isolazionismo”, che invece ancora imperversa in non pochi di questi commenti. Se di Stati Uniti si parla male e tanto perché tutti, come per il calcio, si sentono titolati a farlo, per qual motivo si dovrebbe studiarne in profondità la storia? Perché mai l’università italiana dovrebbe investire su di essa?
A questa prima spiegazione ne va aggiunta però una seconda. Che si lega sia alla difficoltà delle humanities in Italia sia a quella, anche più marcata, degli studi d’area. I tagli generalizzati alla ricerca hanno colpito i secondi, tra i quali l’americanistica, in modo pesantissimo. Sarebbe bello credere che ciò derivi da un’effettiva sprovincializzazione della ricerca e degli stessi campi del sapere storiografico. Gli studi d’area sono in fondo ambiti storicamente e socialmente determinati: definiti, in modo non di rado arbitrario, dalle priorità geopolitiche e dalle contingenze, più che da ragioni scientifiche forti e immutabili. La svolta globale degli studi storici ha portato spesso a contestare, o almeno qualificare, le partizioni d’area, anche quelle consolidate. Alcuni dei filoni di ricerca più originali e innovativi questo hanno fatto: hanno inserito l’esperienza storica degli Stati Uniti entro una parabola più ampia e transnazionale, di cui si evidenziano le tante connessioni e interdipendenze. Ma non da questo, ahimè, deriva la debolezza della storia americana in Italia. A insegnarla – nei rari corsi universitari affidati a studiosi fuori dal gruppo SPS05 – non sono nella gran parte dei casi docenti capaci di partecipare a questa operazione scientifica: in grado, cioè, di “de-provincializzare” la storia degli Stati Uniti, come va di moda dire. Sono invece studiosi che di altro si occupano e che degli Usa hanno una conoscenza, spiace dirlo, non proprio approfondita.
Come uscirne? Lamentele e doglianze non sono mancate negli anni, ma hanno sortito assai poco. Come non sono mancate rilevanti iniziative scientifiche, su tutte quelle promosse dal principale centro interuniversitario, il CISPEA, che raggruppa le università di Bologna, Firenze, Piemonte Orientale, Roma Tre e Trieste. La strada rimane quella dell’impegno nella ricerca e nella didattica, rimarcando e denunciando ora non più il ritardo dell’Italia, come si faceva in passato, ma quella che è a tutti gli effetti un’inaccettabile regressione.

Il Sole 24Ore, 17 luglio 2016