Mario Del Pero

Candidati deboli

La polmonite d’Hillary introduce un’ulteriore variabile in questo strano ciclo elettorale. Una variabile che, come molte altre, segnala la vulnerabilità di entrambi i candidati. È questo un dato difficilmente oppugnabile oggi: a fronteggiarsi sono due contendenti fragili, che non a caso hanno impostato una campagna principalmente negativa, centrata sulla sottolineatura delle reciproche debolezze. Misurabili, queste, attraverso diversi parametri. L’anagrafe, innanzitutto: i 68 anni di Hillary Clinton e i 70 di Donald Trump. Che se eletti sarebbero tra i più vecchi presidenti nella storia degli Stati Uniti (rispettivamente terza e primo, con il Ronald Reagan del 1980 nel mezzo). E che tutto trasmettono fuorché vitalità e dinamismo, come dimostrato dalle tante insinuazioni fatte circolare dalle due parti sullo stato di salute dell’avversario. L’anagrafe s’intreccia con un secondo, palese fattore: la straordinaria impopolarità di Clinton e Trump. Secondo gli ultimi sondaggi Gallup, un ampio numero di americani – attorno al 50% per Clinton, dieci punti in più per Trump – danno una valutazione negativa dei due candidati. Si tratta, nuovamente di numeri record. Che si accompagnano alla diffusa sfiducia sulla stessa integrità di Hillary Clinton e Donald Trump. In un recente sondaggio CNN coloro che dissentivano con l’affermazione secondo la quale la Clinton sarebbe “onesta e degna di fiducia” sfiorava il 70%; per Trump si attestava attorno a un comunque altissimo 55%. Come ha sottolineato l’analista di Gallup V. Lance Tarrance, quella a cui stiamo assistendo è una “battaglia epica tra due individui che non sono stati capaci di riabilitare la propria immagine presso il pubblico americano e che quindi puntano tutto sul rendere il più sgradevole possibile il proprio opponente”. Lo fanno anche per dare risposta a una terza e ultima debolezza: la loro limitata capacità di mobilitare appieno le proprie basi elettorali, come è vitale fare per poter ambire alla Presidenza. Tra l’establishment repubblicano sono sorti comitati a sostegno di Hillary e non passa giorno senza che appaia sui principali quotidiani statunitensi l’articolo di qualche conservatore che annuncia di non poter votare per Trump, vuoi per la sua politica estera isolazionista e protezionista vuoi per il suo passato libertino e filo-democratico. A sinistra e tra i giovani, la Clinton convince poco o nulla: per la sua moderazione; per una carriera marcata da svolte tanto repentine quanto opportunistiche; per il suo convinto sostegno a un interventismo centrato anche sull’uso dello strumento militare.
Ma come si è giunti a ciò? Come si spiega questa bizzarra sfida tra due candidati tanto impopolari? Due risposte possono essere offerte. La prima è comune a entrambi, anche se colpisce ovviamente di più la Clinton. Ed è l’avversione di un pezzo rilevante d’America verso una politica che appare lontana, delegittimata e priva di credibilità. La seconda spiegazione è invece diametralmente opposta per le due parti. Semplificando, si potrebbe dire che la selezione dei due candidati ha mostrato un establishment troppo debole tra i repubblicani e troppo forte tra i democratici. Il primo ha cercato di cavalcare spregiudicatamente il vento dell’antipolitica nella sua opposizione pregiudiziale e rigida a Obama, finendone però malamente disarcionato e ritrovandosi così con un candidato ingestibile e, anche, impresentabile. Il secondo ha invece preso in ostaggio il ciclo elettorale, dissuadendo altri possibili competitori e portando alla nomination una figura tanto preparata e competente quanto inadeguata a una fase storica, e a un umore politico, che ben altro richiedevano. Perché malattia o meno, Hillary Clinton è a tutti gli effetti la candidata sbagliata: l’esponente emblematica di una vecchia politica che l’America, a torto o ragione, oggi rigetta; la rappresentante di un approccio moderato e centrista in un contesto polarizzato che premia invece la radicalità; l’algida tecnocrate in un’era di demagogico populismo. L’avversaria ideale di Donald Trump, insomma, e forse una delle poche ragioni per le quali il miliardario newyorchese abbia ancora qualche chance di arrivare alla Casa Bianca.

Il Mattino, 13 settembre 2016