Mario Del Pero

I corpi dei candidati (e delle candidate)

Da quando le competizioni elettorali statunitensi sono diventate fenomeni pienamente mediatici – da quando cioè lo strumento primario della loro rappresentazione è quello audiovisivo – i corpi dei candidati e delle candidate hanno occupato e riempito la scena di questa rappresentazione. Corpi che devono rispondere a canoni estetici tanto basilari quanto stringenti (l’ultimo presidente calvo ad essere eletto, ad esempio, fu Dwight Eisenhower, che non a caso chiuse la lunga era pre-televisiva). Corpi spesso esibiti: come sfoggio di forza e mascolinità (l’altissimo e possente Lyndon Johnson che si chinava minaccioso sui suoi avversari); per occultare fragilità e infermità (il bel volto giovanile di Kennedy); per accentuare dinamismo e giovinezza (l’improbabile jogging mattutino di Clinton); per enfatizzare una capacità di empatia con il mondo (la sinuosa camminata di Obama). E corpi inevitabilmente scrutati e vagliati, poiché il vigore fisico – la virilità, insomma – è attributo richiesto ai presidenti, che essi hanno ostentato in un’arena, quella politica, non di rado rappresentata come gladiatoria: come un luogo dove solo i più forti si affermano.
Dentro una narrazione ad alto tasso di testosterone, una donna parte inevitabilmente svantaggiata. O riesce a rovesciarla, questa narrazione; o cerca di mascolinizzarsi essa stessa: di dimostrare di poter competere e sconfiggere l’avversario sul piano proprio della virilità. Che è quanto alcune candidate recenti hanno cercato di fare. Come Sarah Palin, la vice di McCain nel ticket repubblicano del 2008, di cui si ricorda l’affermazione secondo la quale l’unica differenza tra una “mamma di giocatori di hockey” (a hockey mom) e un “pitbull” fosse il rossetto. Non le giovò granché questo rappresentarsi come un “pitbull con il rossetto”, ma il messaggio era chiaro. Ed è un messaggio che Hillary Clinton ha in più occasioni fatto proprio. Costruendo un’immagine di donna tenace e inflessibile, capace di reggere ritmi di lavoro che sfiancano anche i suoi collaboratori più giovani. Questa candidatura – alla soglia dei 70 anni, dopo la durissima sconfitta del 2008 contro Obama, le umiliazioni subite da First Lady, l’esperienza da senatrice e segretario di Stato – si colloca in fondo entro questa narrazione: quella di una donna che non molla mai. E che alla fine è a più a suo agio in mimetica, tra quei generali dai quali – narrano le cronache – è amata e riverita, che nei cocktail washingtoniani dove imperano giornalisti dei quali invece diffida apertamente.
E però, per reggere questo gioco – per rendere credibile, appunto, questa narrazione – è chiamata a uno sforzo ben superiore rispetto alla controparte maschile. In quanto donna le si applicano standard assai più severi, come ben si è visto in questa campagna elettorale quando già prima della polmonite i suoi avversari hanno frequentemente avanzato insinuazioni sul suo stato di salute – sulla sua intrinseca fragilità di donna quasi settantenne – che difficilmente si sarebbero permessi con un uomo. Improbabile vi siano conseguenze elettorali, a maggior ragione se di rapida polmonite davvero si tratta. I due elettorati, polarizzati e in una certa misura militarizzati, sono già ben definiti e la mobilità dall’uno all’altro è davvero ridottissima. La Clinton resta favorita e si fatica a vedere una possibile via alla Presidenza per Trump, al di là delle evidenti debolezze della sua avversaria. Tra le quali c’è, appunto, anche la vulnerabilità di un corpo femminile costretto ad agire dentro un discorso politico che continua a essere maschile e, non di rado, volgarmente misogino.

Il Giornale di Brescia, 14 settembre 2016