Mario Del Pero

Terrorismo ed elezioni

In attesa di saperne di più sull’attentato di sabato sera a New York, è possibile provare a fare qualche riflessione sul suo potenziale impatto in una corsa alla Presidenza che, stando agli ultimi sondaggi, pare essere divenuta assai meno scontata di quanto non si credesse solo qualche settimana fa. La prima considerazione è che una chiusura di campagna elettorale dominata dalla questione sicurezza, e da una rinnovata minaccia terroristica, presenta rischi e opportunità tanto per Hillary Clinton quanto per Donald Trump.
La candidata democratica potrebbe ovviamente far leva sulla credibilità che le deriva dalla sua esperienza di statista, della quale vi è un surplus di bisogno in momenti di crisi per la sicurezza nazionale. Gran parte della campagna della Clinton su questo ha puntato: sulla riconosciuta competenza governativa dell’ex segretario di Stato, costantemente contrapposta all’approssimazione e al dilettantismo del suo avversario. Sondaggi alla mano, infatti, non è quasi mai la preparazione della Clinton a essere messa in discussione da chi è in dubbio se votarla o meno, quanto la sua onestà e trasparenza (di cui dubiterebbero almeno il 60/70% degli americani). E però la candidata democratica ha anche molto da perdere in una sfida dominata dai temi della sicurezza. Una recrudescenza della paura nei confronti del terrorismo rischia infatti di legittimare le proposte e le parole d’ordine, estreme e scorrette, del suo avversario. Che sulla paura di un pezzo d’America, non maggioritario ma certo rilevante, ha costruito le sue fortune elettorali e che quella paura ha dimostrato di saperla cavalcare e strumentalizzare. Gli attacchi di Trump a immigrati illegali e mussulmani da essa hanno in fondo origine: offrono bersagli semplici e consolatori; garantiscono soluzioni tanto draconiane quanto efficaci; promettono risposte certe e chiare. Stanno insomma dentro un discorso binario e semplicistico – fondato sullo schema essenziale amico-nemico – che funziona bene in tempi di emergenza per la sicurezza del paese e dei suoi cittadini, reale o esagerata tale emergenza sia. Un discorso, questo, che nello specifico contesto odierno può attingere anche alla più generale insoddisfazione dell’opinione pubblica verso la politica estera statunitense e la campagna infinita contro un terrorismo che sembra, una volta di più, un’Idra dalle teste infinite e replicabili. L’effetto, in altre parole, potrebbe essere opposto a quello auspicato dalla Clinton e favorire un avversario che, è ben ricordarlo, continua a non piacere a una larga maggioranza degli americani, con uno scarto – storicamente altissimo – di circa venti punti tra chi ne dà un giudizio positivo (il 35/40%) e chi ne dà uno negativo (il 55/60%).
Questi dati vanno letti nel contesto di una polarizzazione politica di molto accentuatasi nell’ultimo ventennio. I due campi elettorali – repubblicano e democratico – si sono cioè fatti assai meno mobili, laddove le barriere tra i due sono divenute assai più rigide. È un aspetto, questo, paradossalmente rivelato dai buoni risultati nei sondaggi dei “candidati terzi” di queste presidenziali, il libertarian Gary Johnson e la verde Jill Stein. Che certo sottolineano l’affaticamento di un modello bipartitico il quale, presentandosi coi volti della Clinton e di Trump, ha perso molta credibilità, soprattutto con gli elettori più giovani. Ma che mostrano anche quanto difficile sia oggi per un simpatizzante repubblicano o democratico votare per l’altra parte. Lo evidenzia lo scarsissimo successo del gruppo d’intellettuali repubblicani che hanno invitato a sostenere la Clinton. Lo rivelano i dati delle ultime tornate presidenziali, contraddistinte dalla limitatissima mobilità del voto, con un 90% o più di elettori che hanno scelto candidati dello stesso partito per la Presidenza e il Congresso (20/30 punti percentuali in più rispetto a qualche decennio fa).
Come può incidere un ritorno del terrorismo su questa situazione di elettorati “militarizzati” e sostanzialmente impermeabili? Anche in questo caso, due risposte antitetiche possono essere offerte. La prima è che, trattandosi appunto di due fronti contrapposti e inscalfibili, l’effetto sia limitato: gli elettori della Clinton troverebbero un motivo aggiuntivo per preferirla e altrettanto farebbero quelli di Trump. La seconda lettura, invece, enfatizza come in una competizione così serrata, anche un limitato spostamento di consensi – quale quello generato da una risposta più o meno convincente alla sfida del terrorismo – potrebbe risultare dirimente. Sapendo però anche che con due candidati deboli, molto deboli, come quelli di questo ciclo elettorale, a determinare finora spostamenti significativi nelle intenzioni di voto sono stati gli errori di una parte o dell’altra più che le rispettive proposte: l’avere, come entrambi hanno spesso fatto, parlato troppo più che troppo poco. E forse, la soluzione migliore per Clinton e Trump è attendere che sia l’avversario a fare la prima mossa e, appunto, a sbagliare per primo.

Il Mattino, 19 settembre 2016