Mario Del Pero

Trump in Messico

In una campagna elettorale ricca di stravaganze, il viaggio lampo di Donald Trump in Messico ha aggiunto un’ulteriore, inattesa bizzarria. Il candidato repubblicano ha sfruttato l’improvvido invito del presidente messicano Peña Nieto per volare a Città del Messico e avere un rapido faccia a faccia. Difficile capire cosa abbia mosso Peña Nieto quando ha proposto a Clinton e Trump d’incontrarlo. La sua popolarità è ai minimi storici e forse ha cercato di risollevarla presentandosi come leader capace di relazionarsi alla pari con il gigante statunitense (inesplicabile diventa però la cautela e moderazione poi dispiegata con Trump, un uomo che nell’ultimo anno ha più volte insultato il Messico e i messicani). Più facile, invece, definire gli obiettivi che il miliardario newyorchese sperava di raggiungere con questo viaggio.
Nettamente dietro alla Clinton – nei sondaggi nazionali così come in quelli, più significativi, degli stati che saranno cruciali in novembre – Trump ha un disperato bisogno di alterare una dinamica che appare oggi irreversibile. Recarsi in Messico serviva quindi per dare un messaggio a diversi segmenti dell’elettorato statunitense. Da un lato, intendeva rafforzare il profilo, oggi assai fragile, del Trump statista e Presidente in pectore. Lo rendeva, questo profilo, più credibile attraverso la legittimazione derivante dall’essere ricevuto da un capo di stato. Dall’altro, permetteva al candidato repubblicano di apparire simultaneamente moderato e inflessibile, capace d’interloquire responsabilmente con la controparte messicana ovvero di non indietreggiare dalle sue posizioni di fermezza e rigore. Ecco perché, diversamente da quanto affermato da molti commentatori, non vi è contraddizione tra il Trump cauto e misurato dell’incontro con Peña Nieto e quello che solo poche ore più tardi a Phoenix tornava a tuonare contro gli immigrati clandestini, proponeva deportazioni di massa, invocava “certificati ideologici” per i futuri immigrati – in modo da selezionare quelli in linea con i valori e principi statunitensi – e prometteva di far pagare al Messico il grande “splendido” muro che sarà costruito alla frontiera dopo la sua elezione (“non lo sanno ancora”, ha affermato Trump, “ma lo pagheranno loro al 100%”).
Sconclusionato, incoerente e violento, il discorso di Phoenix ha offerto l’ennesimo concentrato del Trump-pensiero. E ha mostrato, una volta ancora, come la prevista moderazione e civilizzazione del candidato repubblicano sia lontana dal realizzarsi. Anzi, consapevole che le sue chance di vittoria sono poche o nulle, Trump può solo rilanciare sul terreno della demagogia e della provocazione. Può, insomma, giocare l’unica fiche che sembra essergli rimasta: quella che punta alla piena e totale mobilitazione del suo elettorato e in una contestuale defezione dei molti elettori che di Hillary Clinton diffidano apertamente. È una strada stretta e impervia, però. Perché la violenza verbale e il razzismo di Trump porteranno alle urne tanti che altrimenti per Hillary Clinton non avrebbero mai votato; perché cresce il peso dell’elettorato ispanico (un +17% tra il 2012 e il 2016 a fronte di un aumento di quello complessivo che è stato solo del 5%); perché tra chi vota Trump è ampiamente sovra-rappresentato un segmento dell’elettorato, bianco e anziano, il cui peso relativo sta inesorabilmente calando. E contro queste dinamiche poco possono i colpi di teatro, come l’improvviso viaggio in Messico, e le tante acrobazie alle quali Trump ci ha ormai abituato.

Il Giornale di Brescia, 3 settembre 2016