Mario Del Pero

Trump e i repubblicani

I partiti, negli Stati Uniti, sono apparati leggeri e decentrati, contraddistinti da profonde diversità tra stato e stato, permeabili ai condizionamenti di gruppi di pressione, obbligati a interagire con le macchine elettorali che i singoli candidati, a ogni livello, sono chiamati a costruire per realizzare le loro ambizioni elettorali. Svolgono in minima parte, e in misura decrescente, il ruolo del partito moderno inteso come struttura che promuove e gestisce il dibattito politico, elabora le conseguenti piattaforme programmatiche, forma, seleziona e legittima candidati e classi dirigenti. Anche negli Usa, però, i partiti garantiscono – o dovrebbero garantire – ordine e disciplina a un processo democratico sempre a rischio di deragliamento, ancor più in una fase storica come quella attuale, connotata da una fortissima personalizzazione della politica.
Questo ciclo elettorale ci mostra invece lo stato di estrema difficoltà in cui versano i partiti politici statunitensi: perché la debolezza, estrema, dei due candidati è specchio di quella assai meno contingente di repubblicani e democratici. Nel caso dei primi, l’implosione si sta fragorosamente manifestando nella candidatura, improponibile e suicida, di Donald Trump. Ma la sfiducia che larga parte d’America nutre nei confronti di Hillary Clinton ci dice che anche i secondi non versano in ottime condizioni di salute.
Tre fattori aiutano a spiegare sia questo stato di cose sia il suo impatto più radicale su un partito repubblicano che sta uscendo in mille pezzi da questa interminabile campagna elettorale. Il primo è rappresentato da una più generale crisi e delegittimazione di una politica che ai più appare ormai autoreferenziale, lontana e corrotta. Agisce su questo un evidente paradosso. Da un lato si tratta di una politica oggettivamente indebolita da processi e dinamiche globali che ne limitano la capacità d’azione ponendo vincoli e costrizioni forti al pieno esercizio della sovranità nazionale. Dall’altro si tratta di una politica cui si continua a chiedere molto, moltissimo in termini di tutela e sicurezza. L’elettore di Trump vuole simultaneamente meno tasse, meno Stato e più protezione: dalla competizione cinese così come dai lavoratori messicani o dai terroristi islamici. È una politica screditata, quindi, dalla quale si pretende troppo e da cui si ritiene di avere troppo poco. Tutto ciò si riverbera inevitabilmente anche sui partiti, con un altro paradossale corto-circuito: che per sopravvivere finiscono essi stessi per parlare la lingua dell’anti-politica; per ammiccare a quel populismo di cui sono il bersaglio preferito.
Un populismo, questo, che si alimenta di un discorso anti-elitario ormai trasversale, politicamente e culturalmente. Che colpisce ovviamente un’élite, quella politica, fatalmente vulnerabile stante la sua assoluta, e strutturale, esposizione pubblica e mediatica. La classe politica vive di riflettori sotto i quali, oggi, è assai più facile ricevere pomodori che applausi. Almeno di non spostarsi, spesso opportunisticamente, dalla parte del pubblico che grida e insulta; fingerne non solo di comprenderne le ragioni, ma di esserne pienamente parte.
E questo ci porta al terzo ultimo elemento, legato direttamente alla parabola di Trump e dei repubblicani. Che non si sono limitati a difendersi dal vento dell’anti-politica e dai suoi tanti eccessi, ma hanno pensato di poterli cavalcare nella loro campagna, tanto implacabile quanto pregiudiziale, contro Obama. Sono stati agevolati, in ciò, da una narrazione che storicamente si nutre della contrapposizione tra potere federale e potere locale, l’oppressivo centro washingtoniano e le libertà statali. Ma l’hanno estremizzata come non avveniva da tempo, creando le premesse per la scalata ostile infine lanciata da Donald Trump. A quel punto la slavina è partita e fermarla – con un buon 40% dell’elettorato saldamente schierato a sostegno del miliardario newyorchese – è parso impossibile. L’obiettivo è allora diventato quello di ripulire e normalizzare Trump, per sperare di conquistare la Casa Bianca o, almeno, di salvare il partito. Compito rivelatosi infine impossibile: per quel che Trump è e, come scopriamo ogni giorno, ancor più per quello che è stato. La slavina si è infine abbattuta sullo stesso partito repubblicano, travolgendolo e aprendo scenari e prospettive post-voto oggi assai difficili da prevedere.

Il Messaggero, 11 ottobre 2016