Mario Del Pero

Trumpismi

Un altro scivolone, forse il peggiore in un anno di campagna elettorale di suo scandito da gaffe, offese e volgarità assortite. Il Washington Post – il quotidiano che forse più di tutti ha mosso guerra in questi mesi a Donald Trump – ha pubblicato un video del 2005 nel quale il candidato repubblicano si lascia andare a un campionario di commenti e battute così sessisti e violenti da lasciare senza fiato. Eppure, è assai improbabile che Donald Trump si ritiri dalla corsa, come alcuni membri del suo partito ora chiedono. Mancano i tempi tecnici per procedere a una sostituzione; in alcuni dei trentasette stati che consentono il voto anticipato numerosi elettori hanno già compiuto il loro dovere (Trump, in altre parole, ha già ricevuto migliaia di voti, anche in stati che potrebbero essere decisivi come la Florida e la North Carolina); in altri è i impossibile registrare oggi una nuova candidatura. Soprattutto, il miliardario newyorchese non sembra avere alcuna intenzione di fare un passo indietro. È riuscito a uscire indenne da innumerevoli controversie, dopo aver preso in giro disabili, offeso donne e mancato di rispetto a veterani ed eroi di guerra. E a dispetto di tutto, si ritrova ancora testa a testa con Hillary Clinton nei sondaggi (l’ultima media delle rilevazioni indica un 44 a 41% su scala nazionale a favore della candidata democratica).
Ed è da questo elemento che è utile partire per provare a capire che cosa sia il trumpismo e cosa esso ci dica sugli Stati Uniti e, forse, sullo stato della stessa democrazia. Tre elementi meritano una riflessione. Il primo è la vera e propria delegittimazione delle élite politiche, di cui Hillary Clinton è esponente emblematica. È un populismo politicamente e culturalmente trasversale, quello che soffia oggi in America come in Europa. Che si nutre degli errori e dell’autoreferenzialità di un mondo politico ombelicale, sempre più scollegato da quella realtà che pretende di conoscere, rappresentare e governare. Ma che si alimenta anche del messaggio, facile e consolatorio, che esistano soluzioni semplici a problemi complessi; che mostra un’attrazione irresistibile per quelle chiavi di letture binarie e manichee che il demagogo di turno invariabilmente offre.
E questo ci porta al secondo elemento, che di nuovo sembra accomunare gli Stati Uniti all’Europa: questa retorica anti-establishment viene spesso ritorta anche contro conoscenza, preparazione e competenza. Il sapere – e nella fattispecie il sapere politico – viene rappresentato anch’esso come una forma di elitismo, da contestare e rigettare, approfittando ora di strumenti di accesso alle informazioni sempre più orizzontali e meno filtrate. Trump non è solo politicamente scorretto, misogino e violento. È anche un candidato alla carica elettiva più importante al mondo che prende in giro la preparazione della sua avversaria, rilancia falsità e acclarate leggende metropolitane, ostenta e dispensa orgogliosa ignoranza.
Nel farlo, sfrutta e inasprisce un confronto pubblico di suo abbruttito e incattivito. Prodotto di una polarizzazione politica, sociale e culturale di molta intensificatasi nell’ultimo ventennio. Che l’esperienza di Obama alla Casa Bianca ha finito ancor più per accentuare. È questo il terzo e ultimo elemento – prettamente statunitense – su cui ci si deve soffermare. Pochi di noi, nell’inebriante momento della vittoria di Obama nel 2008 avrebbero immaginato che una parte di America bianca – minoritaria, ma tutt’altro che marginale – avrebbe potuto rispondere con tanta, pregiudiziale ostilità all’elezione del suo primo presidente nero. Certo, in un pezzo di quest’America il rigetto di Obama era stato inequivoco (in alcuni stati del sud il voto bianco andò per l’85/90% al suo avversario sia nel 2008 sia nel 2012). Ma difficile era prevedere che questa metastasi si sarebbe diffusa nel paese e nel partito repubblicano. Stando ai sondaggi di cui disponiamo, il 60-65% dei sostenitori di Trump alle primarie credeva che Obama fosse mussulmano o non fosse nato negli Usa (e che quindi occupasse abusivamente la Presidenza). Di tutto ciò – di questi pregiudizi e della narrazione che essi informano – Donald Trump è il prodotto più che la causa. La sua ascesa è stata facilitata dalla opportunistica pavidità dei repubblicani, che queste dinamiche hanno cercato di cavalcare, e dalla sconcertante debolezza dei democratici, che hanno infine scelto la candidata meno idonea per questo ciclo elettorale. E se anche la Clinton dovesse vincere, come si auspica e prevede, l’America che uscirà dal voto sarà un paese ancor più diviso, avvelenato e prostrato.

Il Mattino, 9 ottobre 2016