Mario Del Pero

Fratture americane

Al termine di una delle campagne elettorali più brutte della storia, l’America si ritrova con due candidati straordinariamente impopolari. Secondo un recente sondaggio del Washington Post, sia Donald Trump sia Hillary Clinton hanno un passivo netto di circa venti punti tra chi li giudica positivamente e chi invece ne ha un’opinione negativa. Quattro anni fa, Obama e il suo avversario Romney avevano invece un saldo positivo del 4/5%. L’America si appresta a votare per qualcuno che non ama e di cui spesso diffida apertamente. Lo fa, in larga parte, perché l’alternativa appare peggiore se non addirittura terrificante. È questo, anzi, il fattore primario nella mobilitazione dei due elettorati: la paura della controparte.
Incide ovviamente la violenza di una campagna elettorale dove è volato fango come raramente nella storia recente. Pesa il profilo di due candidati controversi: per gli eccessi, la rozzezza e la violenza verbale di uno; per il cinismo e la spregiudicatezza dell’altra. Agisce il rigetto diffuso di una politica che delegittima preventivamente chi la pratica e, come la Clinton, ne ha fatto la professione della vita.
Ciò cui assistiamo è però anche il frutto di dinamiche di lungo periodo: di processi strettamente intrecciati che pre-datano (ma aiutano a spiegare) questo ciclo elettorale. Il primo è rappresentato da una polarizzazione politica fattasi sempre più intensa negli ultimi vent’anni. La mobilità elettorale si è progressivamente contratta e il peso dello stesso, mitico, elettorato indipendente appare oggi meno rilevante, vuoi perché percentualmente basso vuoi perché su temi specifici molti presunti “indipendenti” hanno in realtà posizioni assai nette e in linea con quelle di uno dei due campi. Le conseguenze sono state la radicalizzazione della proposta politica, particolarmente visibile nel caso dei repubblicani, e la propensione a mobilitare la propria base con un messaggio negativo, che delegittima e sovente demonizza l’avversario. Di nuovo, questo fenomeno è stato più marcato nel partito repubblicano, come si è ben visto in questi ultimi otto anni, quando Obama è stato oggetto di attacchi pregiudiziali reiterati e i suoi avversari hanno promosso un’azione di ostruzionismo al Congresso che ha quasi paralizzato l’attività legislativa. Secondo sondaggi fatti durante le primarie repubblicane, tra il 60 e il 70% degli elettori di Trump ritenevano ad esempio che Obama non fosse nato negli Stati Uniti, e quindi risiedesse abusivamente alla Casa Bianca, o fosse segretamente mussulmano.
E questo ci porta al secondo fattore: quello razziale. La razza è tornata in questi anni a dividere l’America. A lacerare il paese e ad ampliare il solco tra i due partiti, con le minoranze sovra-rappresentate da una parte (quella democratica) e quasi assenti dall’altra. Dentro un partito, quello repubblicano, sempre più bianco il fattore del risentimento razziale è divenuto più marcato e visibile e ha costituito un elemento fondamentale nel catalizzare l’ascesa di Donald Trump. Agisce qui una matrice scopertamente nazionalista ed essenzialista: l’idea che vi sia un’America delle origini, a-storica e perenne, oggi soggetta all’assedio concentrico delle forze della globalizzazione cosmopolita, dell’immigrazione, della contaminazione multirazziale e plurilinguistica. Dentro una simile rappresentazione, la battaglia politica da confronto tra progetti e idee di governo diversi si trasforma in conflitto identitario: scontro di civiltà inconciliabili che non può conoscere mediazioni e compromessi. È questo il terzo e ultimo aspetto: la persistenza, o il ritorno, di alcune delle faglie che hanno caratterizzato le “guerre culturali” statunitensi dell’ultimo mezzo secolo. Se su alcuni temi, come i diritti dei gay, la partita sembra essersi finalmente chiusa, su altri – l’aborto, ad esempio, ma anche la più generale interpretazione della costituzione – essa rimane invece aperta e divisiva, finendo per definire identità partitiche che si percepiscono e rappresentano come antagonistiche e incompatibili. Dentro questo schema binario e polarizzato, perdere un’elezione vuol dire consegnare il paese a chi lo vuole affondare: a un soggetto – un nemico – politicamente illegittimo. Ed il rischio grossissimo – che Trump ha già esplicitato con i suoi frequenti cenni alla possibilità di non riconoscere l’esito del voto – è che le scorie di questa lunga campagna persistano ben oltre l’8 novembre. Che a quella data non segua alcuna riconciliazione e che essa, più che segnare un nuovo inizio, diventi un altro passaggio di uno scontro paralizzante e non ricomponibile.

Il Mattino, 2 novembre 2016