Mario Del Pero

Star globali

I processi d’integrazione mondiale che scandiscono la realtà contemporanea producono simboli e icone globali, dallo sport alle arti, dal business alla filantropia. È raro, però, che questo ruolo spetti agli esponenti di una politica che – senza eccezioni – soffre da tempo di una pesante crisi di legittimità e credibilità. Barack Obama è stato – e come abbiamo visto a Milano continua a essere – un’eccezione. Gli otto anni di governo, i compromessi e gl’insuccessi, interni e internazionali, hanno scalfito solo in parte il mito obamiano. Col tempo, anzi, lo status d’icona dell’ex Presidente è tornato a rafforzarsi. I capelli si sono ingrigiti, il volto si è fatto assai più ossuto, le spalle si sono lievemente incurvate, ma la continuità tra l’Obama candidato presidenziale che parla a 200mila berlinesi entusiasti nel luglio 2008 e l’Obama dei bagni di folla (e dei mille streaming) milanesi del 2017 appare evidente. Ce lo mostrano, seccamente, i tanti sondaggi che negli anni hanno rimarcato la straordinarietà popolarità di Obama nel mondo e, soprattutto, in un’Europa che per il 44° presidente statunitense ha preso una sbandata simil-adolescenziale dalla quale non si è in fondo mai ripresa (l’ultimo sondaggio di cui disponiamo, fatto qualche mese fa dal Pew Research Center, indicava una fiducia in Obama prossima all’80% nell’area UE, con picchi dell’85% in Francia e Germania; era inferiore al 20% nel 2008 per Bush e si collocava sotto il 10% il giugno scorso per Trump).
Le matrici della fascinazione – i fattori che spiegano il perché Obama sia un’icona-mondo – sono plurimi. Rimandano alla forza mitopoietica di un modello e di un sogno, quelli incarnati dagli Stati Uniti, capaci di ripensarsi e riaffermarsi costantemente: di rinascere sulle proprie ceneri, come in fondo fu proprio con l’elezione del 2008. E rimandano, ovviamente, alla straordinaria biografia dello stesso ex Presidente. A una storia tanto globale –nella quale si mescolano e intrecciano Africa, Europa, America e Asia – quanto unicamente americana. Una storia, questa, che diventa parabola dell’eccezionalismo statunitense: di un nazionalismo che al contempo rivendica e ostenta il suo intrinseco universalismo.
I politici che, volenti o nolenti, si fanno star si espongono però a rischi forti, come ben rivelano sia l’esperienza alla Casa Bianca di Obama sia questi primi mesi post-presidenziali. È una dinamica che alimenta, lo abbiamo visto bene, aspettative irrealistiche; proietta sul leader un’aura quasi messianica; lo allontana da quella realtà che deve conoscere per poter ambire a cambiare.
Il tempo ci dirà se Obama sia stato un grande presidente. Di certo, durante i suoi otto anni alla Casa Bianca sono state promosse politiche incisive e riforme importanti. E si è cercato di fare i conti con i rischi che abbiamo appena menzionato, attraverso il deliberato utilizzo di una retorica realista e gradualista, incline a evitare promesse irrealizzabili e a enfatizzare gli inevitabili compromessi imposti dalla quotidianità dell’agire politico. Attenta, inoltre, a proiettare continuamente un’immagine di normalità alla quale tanto hanno contribuito la famiglia e la moglie Michelle in particolare.
Anche se i bilanci sono prematuri, non altrettanto si può dire di questi primi mesi da ex Presidente. La scelta, istituzionalmente corretta, del basso profilo è stata ben presto disattesa. Le foto di Obama in vacanza sull’isola privata del patron di Virgin, Richard Bronson, hanno lasciato perplessi in molti. Che in questa fase storica, e con un miliardario alla Casa Bianca, avrebbero chiesto un altro messaggio. Poche settimane più tardi si è scoperto che Obama, il quale in passato non aveva mancato d’ironizzare sui cachet di Goldman Sachs a Hillary Clinton, sarebbe stato pagato 400mila dollari per intervenire a una conferenza sulla sanità organizzata dalla banca d’investimenti Cantor Fitzgerald (Barack e Michelle Obama hanno ottenuto più di 60milioni di dollari da Penguin come anticipo dei diritti delle loro memorie). Facili moralismi a parte, l’impressione è che Obama si sia calato pienamente, e con un certo compiacimento, in quel jet set globale nel quale sembra trovarsi davvero a suo agio. E che tutto ciò rischi di nuocere alla credibilità di quel messaggio politico che – dal cambiamento climatico all’ineguaglianza – nessun leader mondiale può oggi promuovere con la sua stessa forza e incisività.

Il Mattino, 10 aprile 2017