Mario Del Pero

Le ragioni della decisione di Trump

Nessuna sorpresa. La decisione di Trump di abbandonare l’accordo sul clima ratificato a Parigi nel dicembre 2015 era attesa e per molti aspetti scontata. Di fatto, le politiche adottate in questi primi mesi di presidenza avevano già posto gli Usa fuori dal percorso concordato nella capitale francese. A colpi di ordini esecutivi, direttive alle burocrazie federali e voti del Congresso si sta infatti procedendo da settimane a smantellare la regolamentazione introdotta da Obama per ridurre le emissioni nocive. Il legame e l’interdipendenza tra scelte interne e dinamiche globali sono qui assai stretti: promovendo un’azione incisiva nella lotta al cambiamento climatico, Obama aveva contribuito a rilanciare i negoziati internazionali; demolendo l’impianto legislativo e amministrativo introdotto dal suo predecessore, Trump mette in crisi il processo – di suo fragile e vulnerabile – avviato con l’accordo di Parigi.
Come si spiega questa scelta e quali possono essere le sue conseguenze, dentro e fuori gli Stati Uniti?
Le matrici si possono ricondurre a tre grandi spiegazioni. La prima è tutta politica. I sondaggi ci dicono che diversamente dall’Europa, negli Usa non vi è un ampio consenso sulle cause (e sulla natura ultima) del cambiamento climatico. Una recente indagine del Pew Research Center indica come una minoranza degli americani, appena il 27%, ritenga che vi sia accordo tra gli scienziati sul ruolo primario dell’agente umano nel determinare le trasformazioni del clima cui stiamo assistendo. Una percentuale, questa, che scende al 13% nel caso dei repubblicani conservatori, una netta maggioranza dei quali si dichiara invece convinto che gli studiosi siano mossi da convincimenti politici o da ambizioni di carriera. Ancora una volta, Trump si muove in sintonia con gli umori della sua base elettorale, che cavalca e alimenta, consapevole che ciò gli permette di mantenere una cruciale posizione di forza rispetto al suo partito.
La seconda spiegazione si lega agli interessi economici e ad alcune lobbies tradizionalmente schierate al fianco dei repubblicani. L’industria estrattiva, certamente, ma anche un settore automobilistico che, salvato sotto Obama, si è poi visto imporre standard sempre più stringenti in materia di efficienza e di consumi.
Terzo e ultimo, l’ideologia. Uscire da un impegno multilaterale serve per riaffermare che l’America la sua grandezza la può costruire e rilanciare da sola, sottraendosi ai vincoli e alle costrizioni prodotti da quei processi d’integrazione globale di cui l’inquinamento e il cambiamento climatico sono essi stessi in fondo manifestazione e causa. È un’illusione tutta ideologica, appunto, quella di chi crede che rispetto a tali dinamiche un paese possa agire unilateralmente, preservando la propria indipendenza e sovranità. Ma è un’illusione che può essere venduta con i codici di un nazionalismo estremo che Trump, a modo suo, ha dimostrato di saper maneggiare e gestire.
La conseguenza immediata è quella di mettere in crisi un regime globale di controllo della crescita di emissioni nocive che perde forza ed efficacia laddove viene a mancare il suo principale attore. Perché gli Usa sono superpotenza anche per il loro ruolo di primi generatori pro-capite di gas inquinanti. E se la partita politica rimane ovviamente aperta e sarà determinata dalle scelte future degli elettori americani, il tempo invece stringe su un pianeta fragile, che pare essere vittima una volta ancora d’ignoranza, pregiudizi e opportunismi.

Il Giornale di Brescia, 2 giugno 2017