Mario Del Pero

Trump, il clima e gli eccezionalismi transatlantici

La decisione di Trump di abbandonare l’accordo sul clima firmato a Parigi nel dicembre 2015 era ormai inevitabile. Se vi è un ambito nel quale l’azione della nuova amministrazione è stata incisiva e rapida questo è sicuramente quello ambientale, dove ordini esecutivi, provvedimenti congressuali e precisi indirizzi dati alle burocrazie federali competenti hanno portato al rapido smantellamento della efficace regolamentazione introdotta durante i due mandati di Obama.
Gli Usa sono il paese, dopo la Cina, che produce più emissioni nocive in assoluto (e primeggiano se la misura viene rilevata pro-capite). Il valore pratico e simbolico di questa loro defezione è evidente. Come l’impegno di Obama, e la convergenza bilaterale con la Cina, erano stati in una certa misura funzionali all’accordo di Parigi, così la svolta trumpiana rovescia per il momento quel processo. I danni di questo grottesco negazionismo anti-scientifico li determineranno in ultimo gli elettori statunitensi con le loro scelte future. I sondaggi ci dicono che sulle tematiche ambientali l’America è divisa secondo linee che sono tanto politiche quanto generazionali. Ma ci dicono, anche, che sull’ambiente abbiamo una delle più profonde faglie di frattura oggi esistenti tra le due sponde dell’Atlantico. Recenti sondaggi mostrano infatti uno scarto marcato su questo tra Europa e Usa: laddove nella prima ampie maggioranze ritengono che il comportamento umano incida in modo importante, se non decisivo, sul cambiamento climatico, nei secondi la percentuale scende di molto (addirittura sotto il 15% nel caso degli elettori registrati come repubblicani secondo una rilevazione del Pew Research Center dell’ottobre 2016).
Come già si vide negli anni di Bush, quello ambientale diventa quindi uno degli ambiti ove l’acuta polarizzazione politica e culturale che esiste negli Stati Uniti si riverbera con più forza sulle relazioni transatlantiche. Anzi, esso sembra avere acquisito una valenza quasi identitaria, tanto per gli europei quanto per la destra statunitense. Per i primi è l’esempio della loro capacità di far fronte al lato oscuro e minaccioso dei processi d’integrazione globale che scandiscono l’era contemporanea; per la seconda è simbolo della capacità degli Usa d’isolarsi da tale dinamiche: di preservare un’indipendenza e una sovranità definite anche dalla possibilità d’inquinare e consumare senza remore e limiti.
Sono due auto-rappresentazioni specularmente eccezionaliste, quella dell’Europa-mondo e della fortezza-America. Sulla questione specifica, gli europei stanno chiaramente dalla parte della ragione e del buon senso, ma dispongono di armi davvero spuntate. Come abbiamo visto bene nel 2014-15, solo un serio impegno statunitense, e una contestuale collaborazione tra Washington e Pechino, possono produrre quella convergenza globale necessaria per contenere la crescita delle emissioni nocive. Nel caso degli Usa abbiamo invece l’ennesimo, ideologico esempio di un’irresponsabile illusione sovranista che un Presidente demagogo cavalca con spregiudicatezza e irresponsabilità. Un’illusione che peraltro stride con dinamiche in atto da tempo, che hanno prodotto una significativa emancipazione degli Usa dalla loro dipendenza da fonti fossili tradizionali (tra il 2006 e il 2016, ad esempio, vi è stato un calo del 53% dell’elettricità prodotta col carbone è una crescita del 5000% di quella generata grazie al solare).
Questo gap transatlantico ha, infine, importanti conseguenze politiche ed elettorali. Se Angela Merkel abbandona la sua nota cautela, e attacca Trump frontalmente come ha fatto negli ultimi giorni, lo fa non solo per gli evidenti disaccordi di merito o per assumere una leadership globale che è al di là dei mezzi e delle possibilità di Berlino. Molto più banalmente, l’opposizione anche dura agli Stati Uniti diventa uno strumento, assai efficace, con cui costruire consenso. Uno strumento doppiamente utile in un anno elettorale, come già il suo predecessore Gerhard Schröder ebbe modo di scoprire nel 2002, durante un’altra fase turbolenta e conflittuale delle relazioni euro-statunitensi.
L’esito finale è però una spaccatura che sublima le debolezze delle due parti: di un’Europa in una certa misura impotente e di un’America che sembra ripiegarsi inesorabilmente su se stessa, abdicando a un ruolo che nessun altro – nemmeno la Cina – può per il momento ambire a svolgere.

Il Mattino, 1 giugno 2017