Mario Del Pero

Il G-20 di Amburgo

Vertici come quelli del G-20 svolgono tre diverse funzioni. La prima, riconosciuta e importante, è quella di promuovere una collaborazione multilaterale finalizzata a rafforzare (o creare) forme di governance globale ancora parziali. Il G-20 serve insomma per dare risposte concordate e incisive a crisi di vasta portata, per ampliare i beni pubblici offerti dalla comunità mondiale e per estendere una rete di norme e regole che disciplinino e facilitino le interazioni tra i soggetti di tale comunità. La seconda funzione, spesso sottaciuta e nondimeno visibile, è quella di operare come forum di confronto e scontro tra grandi potenze. Qui è la dimensione terrena e brutale della competizione di potenza che prevale; il multilaterale – per dirla con uno slogan – lascia il campo al multipolare. Terzo e ultimo, il G-20 – come tanti altri fora internazionali – è un palco dal quale i leader dei paesi partecipanti parlano all’opinione pubblica mondiale e, ancor più, a quella interna, dalla quale dipendono in molti casi le loro sorti politiche e la loro stessa legittimità.
Al di là dei generici comunicati finali, dell’ennesimo impegno russo-statunitense a collaborare in Siria e delle frasi di circostanza, è evidente come ad Amburgo abbiano prevalso decisamente la seconda e terza dimensione, perché non solo oggi è impossibile rivedere e potenziare l’architettura della governance mondiale, ma anche quella esistente appare sempre più fragile e contestata.
La partita multipolare si è giocata attorno al triangolo composto da Usa, Cina e un’Europa che, per buona pace di Macron, è ancora Berlino-centrica (la Russia, a dispetto dei muscoli perennemente flessi del suo Presidente, è soggetto marginale e in difficoltà, come evidenziano in modo impietoso i dati sulla sua economia). È un tripolarismo in parte fittizio, questo. L’Europa è attore oggettivamente più debole e le interdipendenze tra Washington e Pechino rimangono assai più profonde (e pericolose) di quelle dell’UE con i due giganti dell’ordine mondiale. Ma è un’Europa – quella a guida tedesca – che nell’attuale congiuntura pensa di avere un’opportunità per uscire dalla crisi degli ultimi anni e iniziare a pensarsi anch’essa come potenza, capace di affrancarsi parzialmente dalla dipendenza securitaria verso gli Stati Uniti.
Se letto in chiave di competizione multipolare, cosa ci dice questo G-20 amburghese? Quali sono le matrici di questa competizione? Le risorse e le possibilità di cui dispongono Europa e Stati Uniti?
Due risposte, generali e intrecciate, possono essere offerte. La prima è che i processi d’integrazione globale degli ultimi decenni hanno prodotto forme d’interdipendenza tanto profonde quanto diseguali. Questa interdipendenza asimmetrica è visibile in molteplici ambiti: dai monumentali squilibri della bilancia commerciale statunitense contro i quali si scaglia Trump a un gap militare tra Usa, Cina e resto del mondo accentuatosi ancor più nell’ultimo ventennio; da un’egemonia del dollaro che rimane incontestata a una gestione dei flussi migratori globali che ricade ora primariamente sull’Europa (e, come ben sappiamo, su alcuni paesi europei in particolare). Se l’interdipendenza da virtuosa si fa viziosa – se invece di generare crescita, ricchezza e scambio alimenta pericoli e tensioni – allora viene meno l’interesse a coltivarla e approfondirla; prevalgono cioè tentazioni unilaterali come quelle cui stiamo assistendo, che sono particolarmente visibili nel caso degli Usa di Trump, ma che non mancano anche alla Germania di Angela Merkel.
Una seconda ragione, tutta politica, va però aggiunta. I leader mondiali parlano a un pubblico che è sia globale sia nazionale. Dal secondo non possono prescindere soprattutto se, come nel caso della Merkel, il momento elettorale si avvicina. Secondo un sondaggio recente, e assai affidabile, del Pew Reseach Center, appena l’11% dei tedeschi dichiara oggi di avere fiducia nel Presidente statunitense; un anno fa, con Obama, questo indicatore era all’86%. Cavalcare l’onda di un anti-trumpismo alimentato dalla poca presentabilità dell’inquilino della Casa Bianca può insomma garantire un ottimo dividendo elettorale e addirittura rafforzare la leadership continentale di Berlino. Il potenziale egemonico tedesco si ferma nondimeno sulla soglia di un unilateralismo commerciale che le politiche della Merkel non solo non contrastano, ma finiscono per acuire. Lo stesso vale però per Trump, il cui lessico rozzamente occidentalista mobilita sì quel pezzo di opinione pubblica interna da cui dipendono le sorti della sua amministrazione, ma rende assai più debole e contestato il messaggio offerto al resto del mondo.
Il combinato disposto di due egemoni fragili e contradditori e di questa rivolta contro l’interdipendenza rischia in ultimo di innescare e accelerare pericolosissimi processi di disgregazione dell’ordine internazionale corrente, facilitando in realtà chi – la Cina di Xi Jinping – queste interdipendenze asimmetriche più di tutte ha sfruttato e alimentato.

Il Messaggero/Il Mattino, 9 luglio 2017