Mario Del Pero

Sark-ron?

L’elezione di Emmanuel Macron era stata salutata con entusiasmo dalle forze della sinistra moderata europea che invocavano il rilancio del progetto europeista, temevano l’ascesa di populismi nazionalisti e regionalisti, e auspicavano una risposta forte all’elezione di Donald Trump e al messaggio anti-atlantico che questa rappresentava.
A tre mesi dall’insediamento di Macron, possiamo dire che l’entusiasmo era prematuro e non poco ideologico. Certo, l’alternativa era di gran lunga peggiore per l’UE e la netta sconfitta di Marine LePen offriva ragione di celebrazione. Sulle principali questioni di politica estera, però, Macron sembra voler seguire i dettami di una tradizionale politica di potenza francese più che l’approccio europeista sognato da molti. Si muove cioè nel solco di un gaullismo temperato che rivela molte assonanze con gli anni di Sarkozy all’Eliseo. Lo abbiamo visto bene nelle prese di posizione sui migranti, nelle iniziative diplomatiche unilaterali sulla Libia, nell’ortodossa difesa delle imprese nazionali, nel bizzarro tentativo di costruire una sorta di rapporto privilegiato e paritario con Donald Trump (e le interazioni ad alto tasso di machismo con il Presidente statunitense paiono costituire un elemento chiave della simbologia macroniana, tutta tesa a rimarcare la rinnovata centralità francese nel contesto internazionale).
Cosa muove e spiega questi atteggiamenti? Soprattutto, quanto realistica è la linea finora adottata?
Vi è, appunto, l’ostentata affermazione dell’impegno a difendere senza cedimenti l’interesse nazionale del paese, scontrandosi se necessario con gli stessi partner europei. Opera il convincimento che la Francia disponga di risorse di potenza – a partire da quelle militari – che possono essere spese per ottenere vari dividendi diplomatici. E agisce, infine, un preciso calcolo politico: l’idea, cioè, che il basso profilo di Hollande abbia contribuito a eroderne consenso e popolarità; che esibire i muscoli, rimarcando il peso e il ruolo della Francia in Europa e nel mondo, possa contribuire a rafforzare l’immagine di Macron come leader dinamico e incisivo.
Non mancano, anche da noi, gli ammiratori del giovane Presidente francese. Coloro che chiedono di prenderne a modello l’inflessibile impegno a tutelare e promuovere l’interesse della nazione. Molto vi sarebbe da dire su un concetto – quello appunto d’“interesse nazionale” – non di rado declinato in modo statico e a-storico; senza la consapevolezza, cioè, che per la Francia come per gli altri principali attori europei esso sia stato perseguito con più efficacia quando inserito dentro una cornice europea (come gli agricoltori francesi dovrebbero peraltro ben sapere). Indebolire l’Europa nel tentativo di bilanciare l’indiscussa superiorità tedesca, come Macron e i suoi consiglieri vorrebbero fare, rischia insomma di danneggiare lo stesso interesse della Francia.
Quel che però più colpisce di queste prime scelte politiche, e della retorica che le accompagna, è il loro evidente velleitarismo. Per fare una simile politica di potenza bisogna avere risorse di cui la Francia, da sola, proprio non dispone. Lo evidenziano, implacabili, i dati sulla competitività economica del paese: dall’alto tasso di disoccupazione a un PIL e una produttività che crescono poco a un sistema educativo efficiente, sì, nel produrre élites riconosciute, molto meno nel formare una forza lavoro qualificata e adattabile. E lo rivela, con disarmante chiarezza, una bilancia commerciale che mostra un -3/4% annuo (contro il + 7/8% della Germania) e un saldo attivo con gli Usa che è solo la metà di quello italiano e meno di un quarto di quello tedesco. È da questi dati, più che dalle interminabili strette di mano con Trump, che Macron farebbe bene a partire nel suo tentativo di rinnovare una Francia che, senza Europa o con un’UE ancor più debole, può fare davvero poco o nulla.

Il Giornale di Brescia, 7 agosto 2017