Mario Del Pero

Trump, Unesco e Iran

Era nell’aria e in larga misura annunciata la decisione degli Usa di uscire dall’Unesco, l’organizzazione delle Nazioni Unite che si occupa di scienza, educazione e, soprattutto, di protezione e valorizzazione dei patrimoni naturali e culturali. Così come era nell’aria questo primo colpo, importante ma per il momento non risolutivo, all’accordo sul nucleare iraniano.
L’Unesco è diventata – come altre organizzazioni internazionali – la bestia nera degli Usa, che già una prima volta, con Reagan nel 1984, ne uscirono, per poi rientrarvi diciotto anni più tardi. Un bersaglio peraltro molto facile: per la sua sostanziale leggerezza istituzionale; per la sua scarsa rilevanza politico-diplomatica; perché incarnazione emblematica di una filosofia internazionalista, non priva di ambiguità, divenuta col tempo fortemente invisa alla destra statunitense.
Se letti in chiave storica, la decisione di Trump, le ragioni che vi sottostanno e gli obiettivi che gli Usa si prefiggono di raggiungere diventano più intelligibili. La giustificazione, solo in parte sostanziale, si lega all’accettazione nell’Unesco della Palestina come paese membro e ad alcune decisioni a dir poco discutibili su Gerusalemme e Hebron (la seconda, dove vi è un fondamentale luogo santo ebraico come la Tomba dei Patriarchi, è stata addirittura definita come sito di patrimonio palestinese). Dopo l’ammissione della Palestina nel 2011 Obama è stato obbligato per legge a sospendere il pagamento delle quote annuali statunitensi, corrispondenti a più di un quinto del totale del bilancio; negli anni gli Usa hanno maturato un significativo debito nei confronti dell’organizzazione che oggi non intendono più saldare.
Sotto traccia scorrono però logiche e scopi più ampi e anche ambiziosi, che si rintracciano pure nella vicenda del nucleare iraniano. Rispetto al quale Trump rimanda in ultimo la decisione al Congresso, annunciando di sospendere la certificazione del rispetto da parte di Teheran dei termini dell’accordo del luglio 2015, confermato invece in più occasione dai rapporti dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica.
Come si può spiegare quanto sta avvenendo? Innanzitutto, si tratta di gesti che per il momento rimangono ad alto contenuto simbolico e basso effetto pratico. Trump sembra muoversi nel solco tracciato a suo tempo già da Ronald Reagan e che alcuni storici definirono il “paradosso reaganiano”: lo scarto tra retorica roboante e politiche comunque attente ad evitare vere e proprie escalation. La voce grossa di Trump, in altre parole, non genera ancora decisioni che possono precipitare vere e proprie crisi internazionali. Come nel 1984, l’Unesco diventa il facile surrogato di bersagli che, se presi di mira, genererebbero riverberi ben più ampi e pericolosi.
Colpire l’organizzazione parigina permette però al Presidente di fare sfoggio di un nazionalismo anti-intellettuale (di cultura, in fondo, con l’Unesco si parla) che piace molto, moltissimo a quella base radicalmente conservatrice che ha portato Trump alla Casa Bianca e dal cui continuo sostegno dipendono in buona misura le sue sorti politiche. E questo c’indica la seconda matrice, tutta politica, delle iniziative di Trump: che sono funzionali alla costruzione e alla preservazione del consenso; e che si spiegano anche come parti di dinamiche interne ai repubblicani e della dialettica tra l’amministrazione e un Congresso al quale ora Trump gira l’eventuale responsabilità ultima di far implodere o meno l’accordo sul nucleare iraniano.

Il Giornale di Brescia, 14 agosto 2017