No, non siamo nel 1985
Non, non è stata la replica dei vertici USA-URSS di Ginevra (1985) o di Reykjavik (1986). Perché Putin e Biden non sono Gorbachev e Reagan; perché quel dialogo, e gli accordi che esso riusci a generare, contribuirono davvero a cambiare il corso della storia; perché, soprattutto, quella tra Russia e Stati Uniti non è una nuova Guerra Fredda. Troppo debole questa Russia per poter ambire al ruolo di competitore della superpotenza statunitense; troppo focalizzati sulla Cina e la sua sfida, gli Stati Uniti, per poter aprire un vero fronte di tensione con Mosca.
E però di vertice importante si è trattato. Per quel che ci dice sulle relazioni internazionali oggi; e per il valore simbolico dell’attenta coreografia che lo ha accompagnato. Sia Biden sia Putin hanno cercato di capitalizzarvi politicamente, consapevoli entrami che il rapporto tra i due paesi è solo tassello di una partita più complessa e globale, nei cui molteplici dossier la Russia non di rado svolge un ruolo periferico.
Per il presidente russo d’importante riconoscimento si è in fondo trattato. Ricoscimento della sua importanza e del suo ruolo così come – dato importante – di una sovranità russa che Washington ha spesso contestato nel dopo Guerra Fredda, in nome dell’integrazione capitalistica, della promozione della democrazia o della difesa dei diritti umani. A Biden il vertice ha invece offerto l’opportunità di parlare il linguaggio di un internazionalismo concreto e realista che, sondaggi e scelte elettorali alla mano, sembra oggi piacere all’elettorato americano. Ha riaffermato l’impegno statunitense sul tema dei diritti umani; ma ancora una volta ha cercato di mettere in asse questo riferimento a ideali e principi universali, che gli Usa sarebbero pronti a difendere e promuovere, con la sottolineatura della necessità di agire pragmaticamente, in funzione di una stabilizzazione del quadro europeo che gli Usa auspicano e per la quale c’è bisogno della Russia.
Entrambi i Presidenti hanno usato i riflettori per una propaganda che, nel caso di Putin, si è espressa in forme quasi surreali quando ha presentato l’assalto al Congresso del 6 gennaio come una normale forma di protesta politica e l’azione prese contro alcuni dei manifestanti una forma di persecuzione politica. Quel passaggio così come la denuncia dei disordini provocati dalle manifestazioni di Black Lives Matter ci mostra chiaramente come Putin non intenda rinunciare a presentarsi come punto di riferimento di una proposta politica sovranista paradossalmente sovranazionale: di un’internazionale del sovranismo che ha nel Presidente russo il suo punto di riferimento ideale e, talora, materiale.
E però questa propaganda, pacata nei toni ma – a osservarla bene – sovraccarica nei contenuti si accompagna con la chiara volontà di evitare ulteriori escalation, riportare la competizione entro i binari della moderazione e della prevedibilità, rendendola meno volatile e rischiosa. Le aperture ci sono state – soprattutto da parte statunitense, ad esempio con il congelamento delle sanzioni alla compagnia responsabile della costruzione del controverso oleodotto Nord Stream 2 che collega Germania e Russia – e la volontà reciproca di rilanciare il tavolo negoziale sulle armi nucleari potrebbe essere propedeutico a stemperare le tensioni e aprire un dialogo di più ampio respiro. Che gli Usa vogliono anche perché considerano la Cina il vero rivale su cui concentrare risorse e attenzioni; e di cui la Russia ha bisogno, non ultimo per ridurre sanzioni che colpiscono un’economia di suo fragile e poco competitiva. Dialogo però che avrà bisogno di gesti concreti, con Mosca chiamata a moderare le sue cyberwars e suoi hacker e Washington a ingerire meno e sollevare almeno qualcuno dei provvedimenti punitivi attuati in questi anni. E dialogo che la propaganda cui abbiamo assistito anche ieri difficilmente aiuta.
Il Giornale di Brescia, 17 giugno 2021