La prevedeva di certo, Donald Trump, questa violentissima recrudescenza del conflitto arabo-israeliano successiva al trasferimento a Gerusalemme dell’ambasciata statunitense. Eppure ha deciso comunque di procedere: di accendere la miccia e innescare questo nuovo, esplosivo fronte di tensione. Perché lo ha fatto? Quali obiettivi si pone? Che miscela – altamente infiammabile – di politica, geopolitica e ideologia sottostà a questa sua decisione?
Due sono, schematizzando, le possibili risposte a queste domande. La prima rimanda appunto alla geopolitica ossia alla decisione di compiere una svolta a 180 gradi rispetto alla linea di Obama per tornare a una politica di alleanze tradizionali in Medio Oriente, centrata primariamente su tre relazioni speciali: con Israele, Egitto e Arabia Saudita (i primi due rimangono incontestabilmente i principali destinatari degli aiuti militari statunitensi; la terza continua ad acquistare armi dagli Usa, ad aiutare Washington dentro l’OPEC e a trasferire in America – in forma di prestiti e investimenti – parte dei suoi profitti petroliferi). Definitivamente archiviato è quindi il tentativo obamiano di ripensare questa strategia, coinvolgendo (e cercando così di neutralizzare) l’Iran e affrancando gli Stati Uniti da relazioni fattesi nel tempo ingestibili e – soprattutto nel caso degli autoritari regimi saudita ed egiziano – sempre meno presentabili. Spostare l’ambasciata a Gerusalemme ha avuto, in questa prospettiva, una rilevante valenza simbolica. È servito sì per riaffermare il legame unico tra Stati Uniti e Israele e il pieno appoggio dell’amministrazione Trump al governo Netanyahu. Ma ha rappresentato anche un modo per testare gli alleati arabi di Washington, Arabia Saudita su tutti. Il silenzio e la sostanziale passività di quest’ultima su quanto sta avvenendo a Gaza sembra confermare che la scommessa trumpiana sia stata per il momento vinta.
Dietro, o meglio al fianco, della geopolitica stanno la politica e i tanti, spregiudicati calcoli che la informano, in particolare in un anno elettorale come questo, con l’approssimarsi del cruciale voto di mid-term di novembre, quando si rinnoverà l’intera Camera dei Rappresentanti e un terzo del Senato. Gli Usa sono caratterizzati oggi da forme estreme di polarizzazione nelle identità e appartenenze politiche e nelle scelte conseguenti di voto. Le matrici di tale polarizzazione sono plurime e diverse. Tra le tante vi è anche il conflitto arabo-israeliano. Rispetto al quale i dati e i sondaggi ci dicono due cose. La prima è che il sostegno dell’opinione pubblica statunitense a Israele rimane solido e massiccio: secondo una rilevazione che Gallup conduce ormai da tre decenni, nel conflitto tra israeliani e palestinesi, il 64% degli americani parteggia oggi per i primi e solo il 19 per i secondi. Una volta esaminata, questa linea filo-israeliana si rivela però molto più forte tra i repubblicani e tra gli evangelici, dove il rapporto diventa addrittura di 85/90 a 10/15. È un segmento elettorale – questo della destra più radicale – su cui Trump ha costruito le proprie fortune e dal cui appoggio, che per il momento rimane solido e inscalfibile, il Presidente dipende.
È chiaro però che considerazioni, calcoli e, anche, cinismi politico-elettorali portino a giocare col fuoco, come bene stiamo vedendo in questi giorni. E isolino gli Usa, rendendoli sempre meno credibili come possibile mediatore di una pace mediorientale. Che Washington non sembra però oggi volere, nel convincimento che quel che davvero conta siano i rapporti di forza e che questi pongano ora i palestinesi e i loro sostenitori in un angolo da cui non hanno i mezzi per uscire.
Il Giornale di Brescia, 16 maggio 2018