Mario Del Pero

Autore archivio: Mario Del Pero

Razzismo, “Shitholes” e degrado della politica

“Shithole”, letteralmente “cessi” o, meglio, “posti di merda”. Così Donald Trump ha apostrofato, durante un incontro con alcuni senatori, paesi come Haiti o la Nigeria (“perché, ha continuato il Presidente, “i nostri immigrati vengono da questi paesi e non invece dalla Norvegia?”). Un commento volgare, insensibile e, sì, squallidamente razzista. Che gli è valso pure la pesante denuncia dell’agenzia per i diritti umani delle Nazioni Unite. Poco importa se Trump creda a quel che dice – in fondo tutta la sua vita è contraddistinta da cambi di opinione repentini e radicali – o se questa aggressiva grossolanità razzista sia strategica: a uso e consumo, cioè, di quell’elettorato repubblicano più becero e retrivo che ancor oggi lo appoggia con entusiasmo e dal cui sostegno egli dipende. E poco importa, anche, se quest’ultimo episodio confermi la fragilità psichica e l’inconsistenza intellettuale di Trump denunciate nel recente libro sul suo primo anno di presidenza del giornalista Michael Wolff. Che Trump non stia proprio bene lo rivelano in fondo i suoi frequenti tweet delle tre del mattino, nei quali prende in giro di volta in volta l’ex modella ingrassata e fuori forma o l’avversario politico “fallito” e “perdente”.
La domanda da porsi è invece come questo sia possibile: come una figura simile possa essere giunta alla Casa Bianca, in un’America dove più che altrove il linguaggio si è fatto negli anni attento, se non addirittura asettico, in nome di un politicamente corretto particolarmente sensibile proprio alle questioni razziali.
Tre sono le risposte possibili, tra loro strettamente intrecciate. La prima riguarda un imbarbarimento e un degrado del discorso pubblico che Trump oggi certo alimenta, ma del quale è per molti aspetti il prodotto ben più che la causa. Incidono le forme nuove di una comunicazione che, quando applicate all’opaca complessità della politica, producono e legittimano messaggi urlati e binari, che trivializzano realtà complesse e difficili. Pesano il discredito e la delegittimazione di élites politiche di loro non prive di responsabilità, ma che oggi sono il bersaglio facile e privilegiato del clima anti-intellettuale in cui viviamo. Ma opera – ed è questo il secondo fattore sul quale soffermarsi – anche la polarizzazione che contraddistingue le democrazie più avanzate: società divise e fratturate, queste, dove i meccanismi di mobilitazione di una parte passano attraverso la delegittimazione di un avversario trasformato automaticamente in nemico assoluto e quindi illegittimo. Il circolo vizioso è qui tanto perverso quanto, soprattutto negli Usa, visibile. Democrazie efficienti abbisognano di quella moderazione e di quei compromessi che in un contesto polarizzato diventano difficili se non impossibili; la conseguente, e frequente, improduttività dell’azione politica catalizza a sua volta un’ulteriore delegittimazione dei soggetti tradizionali che la svolgono, facilitando così l’ascesa di demagoghi radicali come Trump. In un simile contesto, con elettorati quasi militarizzati contro nemici assoluti, percepiti come veri e propri pericoli per la democrazia e la propria stessa libertà, prevalgono logiche d’identificazione e di appartenenza strettamente identitarie. Negli Stati Uniti – terzo e ultimo aspetto – la razza continua a costituire un fattore determinante nel definire lealtà partitiche e scelte elettorali. Ce lo mostrano bene i dati dell’ultimo ciclo elettorale, quando Trump vinse con più di venti punti di scarto tra l’elettorato bianco (il 70% di quello complessivo). La frattura razziale – quella “linea del colore” che da sempre segna e condiziona la storia americana – è tornata a farsi forte e profonda negli anni in cui Barack Obama è stato presidente. Anni, questi, durante i quali un pezzo minoritario ma affatto marginale del paese dimostrò di non voler accettare l’idea che un nero potesse risiedere alla Casa Bianca, furono lanciate campagne indecenti (anche da Trump stesso) atte a dimostrare che Obama non fosse nato negli Usa e per opportunismo, viltà e debolezza il partito repubblicano fece un patto col diavolo con un razzismo che avrebbe infine facilitato l’ascesa e il successo di un presidente incontrollabile, e impresentabile, come Donald Trump.

Il Mattino, 14 gennaio 2018

Il Pulsante Più Grosso

Il degrado del discorso pubblico, di cui Trump è in fondo tanto il prodotto quanto una delle cause, lo si può misurare anche dal tweet, rozzo e machista, spedito in risposta al dittatore nordcoreano Kim Jong-Un, nel quale il presidente statunitense ha affermato di avere un pulsante nucleare “molto più grosso e potente” di quello di Kim.
Dichiarazione ineccepibile, questa, al di là del grossolano doppio senso che l’accompagna, stante il monumentale gap di potenza militare (e, appunto, nucleare) che esiste tra Stati Uniti e Nord Corea. Ma dichiarazione che banalizza un quadro assai più complesso e opaco. Il nucleare può infatti costituire l’arma dei poveri: lo strumento con il quale riequilibrare, almeno in parte, marcati squilibri di forza. Nel caso specifico, con l’atomica la Corea del Nord ha ulteriormente rafforzato una capacità deterrente di cui già disponeva grazie alla sua capacità di scatenare un conflitto convenzionale dai costi immensi nella penisola coreana. Se muovere guerra prima che Pyongyang si dotasse di armi atomiche e missili a lunga gittata era di per sé quasi inimmaginabile, oggi questa opzione appare ancor meno praticabile.
Le logiche della deterrenza – rafforzate dalla lezione che i precedenti d’Iraq e Libia sembrano indicare a Kim Jong-un – aiutano quindi a chiarire matrici ed effetti del programma nucleare nordcoreano. Esse offrono però una spiegazione solo parziale. Variabili ideologiche, economiche e geopolitiche vanno aggiunte per ottenere un quadro più completo ed esaustivo. La valenza simbolica del nucleare è fondamentale per un regime che spera di vedere accresciuto il suo status di potenza e che nella forza militare trova da sempre un elemento identitario: un fattore distintivo, da brandire tanto nel processo di mobilitazione interna quanto nella richiesta di riconoscimento indirizzata all’esterno. L’atomica offre una delle poche carte negoziali di cui la Corea del Nord dispone per cercare di barattare moderazione (e quindi offerta di sicurezza) con vitali aiuti economici in forma di crediti, tecnologia e materie prime. Infine, esacerbare le tensioni regionali, magari scatenando una corsa agli armamenti, destabilizza un ordine di cui gli Usa continuano a essere i garanti ultimi e rischia di acuire gli antagonismi tra le principali potenze dell’area, a partire da quelli tra Cina e Giappone.
È un quadro, questo, nel quale non vi sono soluzioni semplici e dove il “pulsante nucleare più grosso e potente” di Trump a poco serve: perché i costi di una guerra sono troppo alti per tutti, a partire dai milioni di sudcoreani esposti al fuoco del vicino settentrionale; perché quello che la studiosa Nina Tannenwald ha chiamato il “taboo nucleare” continua fortunatamente a operare, rendendo l’opzione di un conflitto atomico non contemplabile o accettabile; perché, infine, la condizione di assoluta inferiorità in cui versa la Corea del Nord permette di contenerne la sfida ovvero di renderne automaticamente suicida l’eventuale ambizione di usare il nucleare per funzioni altre da quella deterrente.
Questa consapevolezza dovrebbe indurre chi guida gli Stati Uniti a un surplus di moderazione e attenzione, per evitare che la crisi coreana possa turbare una relazione, quella tra Usa e Cina, di suo complessa e difficile e per preservare uno status quo che costituisce in fondo la condizione più favorevole all’avvio dell’auspicata transizione in Corea del Nord. Moderazione e attenzione che, per temperamento e calcolo politico, sembrano però davvero mancare a chi guida gli Usa oggi, come ci ricorda anche questo ennesimo tweet.

Il Giornale di Brescia, 5 gennaio 2018

La NSS di Donald Trump

È dal 1986 che le amministrazioni statunitensi sono chiamate a rendere pubblica la loro strategia di sicurezza nazionale (National Security Strategy, NSS). Sono documenti che hanno una funzione primariamente pedagogica e politica: servono a illustrare obiettivi, principi e metodi dell’azione internazionale degli Usa e, nel farlo, a convincere le opinioni pubbliche interne e internazionali.
Con qualche eccezione, questi documenti tendono a essere anodini e vaghi. Sono dichiarazioni generiche e onnicomprensive, nelle quali gli esegeti della politica estera statunitense sono spesso chiamati a leggere fra le righe per trarre indicazioni utili alle loro analisi.
Resa pubblica due giorni fa, la NSS di Donald Trump rappresenta invece una chiara eccezione. Con un linguaggio secco, binario e non di rado schematico, essa prova a riassumere gli elementi centrali della visione trumpiana di quale sia il ruolo degli Usa nel mondo. Nel farlo, contesta apertamente alcuni degli assiomi fondamentali dell’internazionalismo statunitense, liberal o conservatore.
Proviamo, per chiarezza, a distinguere l’analisi presente nel documento dalle prescrizioni operative che essa indica. Questa prima NSS di Trump offre una visione del quadro internazionale, e adotta un lessico, scopertamente realisti (un principled realism, “un realismo fondato su principi”, si afferma a più riprese nel documento). Quello globale è un contesto anarchico e competitivo, si afferma, dove ogni Stato cerca di massimizzare i propri interessi e dove la difesa e promozione di questi costituiscono la bussola che orienta scelte, azioni e politiche. L’interesse nazionale è dato e oggettivo; va perseguito abbandonando l’illusione ideologica che la politica internazionale non sia, e non sia sempre stata, una “competizione per il potere”. Una competizione, questa, nella quale due sarebbero oggi i grandi avversari degli Stati Uniti: la Russia e la Cina. Alle due, il documento dedica numerosi passaggi, nei quali si descrive l’abilità e la spregiudicatezza di Mosca e Pechino, oltre che la loro possibilità di agire senza gli scrupoli e le costrizioni cui deve invece sottostare la politica estera di una democrazia come quella americana. Un gradino più sotto, nella gerarchia dei nemici degli Usa, si collocano invece Iran e Corea del Nord – per il quale il documento riesuma una categoria, quella dei rogue states (“stati canaglia”, nella bizzarra traduzione nostrana), da tempo rigettata e screditata – e il terrorismo di matrice islamica.
Le minacce e i pericoli, asserisce il documento, sono totali e assoluti. Anche perché autocompiacimento, inettitudine, ingenuità e pavidità hanno fatto sì che altri approfittassero dell’ordine internazionale liberale costruito e guidato dagli Usa negli ultimi 70 anni. Le prescrizioni operative sono quindi inequivoche. Non una separazione e un isolamento impraticabili e controproducenti. Ma nemmeno una politica di coinvolgimento collaborativo e multilaterale dimostratasi naïve e perdente. Quello che Trump propone è invece una politica di potenza, fondata sul riarmo, la riacquisizione di un’incontestata superiorità militare, la negoziazione di accordi commerciali bilaterali, la riacquisizione di una piena sovranità, troppo spesso sacrificata sull’altare della collaborazione diplomatica e dell’integrazione globale. In un passaggio emblematico, che rigetta alcune delle fondamenta del discorso internazionalista statunitense, si giunge addirittura ad affermare che si deve essere realisti nel “comprendere come l’American way of life non possa essere imposto agli altri, né costituisca la culminazione inevitabile del progresso”.
I cortocircuiti, in un mondo sempre più integrato e interdipendente, sono in realtà molteplici e in taluni passaggi del documento assai visibili. Ma il messaggio che Trump intende dare – dentro e fuori l’America– risulta chiaro e preciso. È un messaggio pericoloso, potenzialmente destabilizzante e, paradossalmente, assai poco realistico. Che richiede però al resto del mondo, a partire dalla stessa Europa, un surplus di attenzione e responsabilità.

Il Giornale di Brescia, 21 dicembre 2017

Giocare col fuoco

In modo anche più netto e brusco di quanto non si prevedesse, Donald Trump ha annunciato la decisione di riconoscere Gerusalemme come capitale dello stato d’Israele e di procedere al trasferimento dell’ambasciata statunitense che si trova ancora a Tel Aviv. Le proteste sono state immediate, soprattutto in Medio Oriente e nel mondo arabo. L’Iran, per bocca della sua guida suprema – l’ayatollah Khamenei – ha denunciato la presa di posizione statunitense rispetto a quella che ha definito la “capitale occupata della Palestina”; Hamas ha chiamato a una nuova Intifada; gli alleati storici degli Usa, come Egitto e Arabia Saudita, con i quali Trump sembrava aver costruito un nuovo asse dopo le difficili relazioni degli anni di Obama, hanno preso le distanze. Violenze, inevitabilmente, seguiranno in Medio Oriente come forse negli stessi Stati Uniti.
Trump gioca col fuoco, dicono giustamente in molti. Lo fa, però, perché di quel fuoco ha in fondo un disperato bisogno politico. Con questa decisione su Gerusalemme, il Presidente spera infatti di ottenere tre risultati strettamente intrecciati. Il primo è di soddisfare e tenere mobilitata una base conservatrice che ancora lo appoggia e presso la quale, anzi, il tasso di approvazione del suo operato è addirittura cresciuto nelle ultime settimane. Una base, questa, dove fortemente rappresentato è un mondo evangelico che da almeno quattro decadi costituisce uno dei più forti sostenitori d’Israele negli Usa. E una base che offre la migliore polizza possibile a Trump contro il rischio che una parte della rappresentanza repubblicana al Congresso lo possa scaricare al procedere dell’inchiesta, e delle rivelazioni, sulle collusioni tra l’entourage del Presidente e la Russia.
Il secondo obiettivo è di scatenare la risposta estrema dell’Islam radicale per riproporre quella logica, binaria e manichea, dello scontro di civiltà che è da sempre al centro della retorica trumpiana. Si tratta, in questo caso, della declinazione tutta occidentalista di una logica amico/nemico che finisce per legittimare Trump medesimo, in particolare di fronte a un’opinione pubblica repubblicana nella quale diffusa – e sovradimensionata rispetto al resto del paese – è una marcata islamofobia (secondo un recente sondaggio del Pew Research Center, ad esempio, il 65% degli elettori registrati come repubblicani ritiene che vi sia una naturale incompatibilità tra Islam e democrazia; una percentuale che scende invece al 30% tra gli elettori democratici).
Terzo e ultimo, il quadro mediorientale. Dove questa decisione riaccende lo scontro con l’Iran, come Trump vuole e auspica. Per fare leva sulla profonda avversione a Teheran che è ancora largamente diffusa negli Usa; e per porre le premesse per lo smantellamento dell’accordo sul nucleare iraniano, inviso al Presidente così come a gran parte del mondo repubblicano.
Col fuoco si può però scottare: se stessi e gli altri. Quello di Trump è un pericoloso e cinico azzardo, che rischia di scatenare una spirale di violenza potenzialmente incontrollabile, che rende ancor più difficile sbloccare lo stallo del processo di pace israelo-palestinese e che appare, anche, del tutto incongruente con la strategia perseguita finora dalla sua amministrazione in Medio Oriente, basata sul ripristino di un tradizionale sistema di alleanze centrato sulla triade Israele, Egitto e Arabia Saudita. Ma la coerenza, politica e strategica, non sembra davvero albergare in questa Casa Bianca.

Il Giornale di Brescia, 8.12.2017

Cinismo e spregiudicatezza

Era annunciato. Anzi, in linea con il lessico piuttosto essenziale di cui sembra disporre, Trump è stato anche più diretto e chiaro di quanto molti non prevedessero. “È giunto il momento di riconoscere Gerusalemme come capitale dello stato d’Israele”, ha annunciato; “assumeremo architetti e ingegneri per costruire una nuova ambasciata che costituirà un magnifico tributo alla pace”.
In gran parte del mondo, quello di Trump appare come un vero e proprio azzardo, che rischia di scatenare una nuova spirale di violenza in Israele e nel Medio Oriente. Un azzardo che pare essere ispirato da due matrici e che si poggia su un assunto, ottimistico e discutibile.
Le cause, innanzitutto. Che sono tanto interne quanto internazionali. Trump strizza ancora una volta l’occhio a quel pezzo di opinione pubblica conservatrice che lo sostiene e, oggi, in una certa misura lo protegge. Vi è una destra cristiana che a partire dagli anni Settanta si è schierata sempre di più a difesa d’Israele. Vi è un mondo neoconservatore che considera quella israeliana una cittadella della democrazia occidentale assediata dalle forze dell’oscurantismo. E vi è, più in generale, un ampio sostegno pubblico a un paese con il quale gli Usa hanno maturato nel tempo una relazione davvero speciale e unica (secondo un recente sondaggio del Pew Research Center, per esempio, tra gli americani il 54% afferma di simpatizzare più per Israele che per la Palestina contro il 19% che dichiara il contrario; un rapporto che si fa addirittura di 79 a 4 tra i repubblicani conservatori). Trump cerca insomma di capitalizzare politicamente su questo stato di cose. Sapendo bene che la sua forza politica, per certi aspetti la sua stessa sopravvivenza, dipende dal controllo di quella base repubblicana presso la quale continua a godere di un forte appoggio e che gli offre una polizza contro possibili insorgenze di senatori e deputati del suo partito.
Nel farlo, cerca di sfruttare un secondo elemento che si collega alle dinamiche mediorientali. Perché se Israele è un partner speciale, l’Iran rimane – nelle percezioni e nelle rappresentazioni – il male e il nemico assoluti. Un paese del quale, stando a uno storico sondaggio Gallup iniziato a fine anni Ottanta, oggi circa l’85% degli americani dà un giudizio fortemente negativo. Vedere la guida suprema di Teheran, l’ayatollah Khamenei, tuonare contro la decisione di dichiarare Gerusalemme “capitale della Palestina occupata” non può che far piacere al Presidente statunitense, che da un rinnovato scontro verbale con l’Iran può solo trarre vantaggi politici, tra i quali anche un sostegno maggiore alla sua eventuale decisione di sospendere l’accordo sul nucleare iraniano. Vantaggi politici ai quali può ovviamente contribuire anche l’escalation di violenza che inevitabilmente seguirà l’annuncio, soprattutto a Gaza, e che permetterà a Trump di riproporre, e sfruttare, sia una rappresentazione binaria delle responsabilità e delle ragioni dello scontro israelo-palestinese sia la diffusa islamofobia di una parte – minoritaria ma affatto marginale – della destra statunitense.
L’assunto da cui Trump muove è che le conseguenze di questa decisione, e del roboante annuncio che l’ha accompagnata, siano in una qualche misura gestibili e che essa anzi offra, in prospettiva, una leva alla quale gli Usa potranno attingere nel cercare di rilanciare un processo di pace che al momento appare definitivamente morto. È un assunto, questo, fondato sul convincimento secondo il quale sia già possibile monetizzare la svolta imposta alla politica mediorientale degli Stati Uniti dopo l’uscita di scena di Obama. Gli stati che oggi denunciano con forza la decisione del Presidente americano, a partire dall’Arabia Saudita, degli Stati Uniti hanno in fondo assoluto bisogno e con Obama hanno compreso come l’appoggio statunitense non vada più dato per scontato: che la politica di alleanze degli Usa in Medio Oriente può avere geometrie variabili e contingenti. È un assunto ottimista e non molto realista, quello trumpiano. Di un presidente che spesso, troppo spesso, sembra scambiare cinismo e spregiudicatezza per pragmatismo e determinazione.

Il Mattino, 7 dicembre 2017

Tra Russiagate e riforme fiscali

Nel giorno in cui Donald Trump ottiene forse il suo primo vero successo legislativo, l’ombra del Russiagate si staglia sull’amministrazione e su alcuni dei più stretti collaboratori del Presidente, a partire dal genero Jared Kushner. Mentre il Senato approvava una radicale revisione della fiscalità, con forti tagli soprattutto alle aliquote sui profitti delle imprese, l’ex consigliere per la sicurezza nazionale di Trump, Michael Flynn confessava di aver mentito all’FBI in merito a incontri avuti con l’ambasciatore russo durante il periodo di transizione dall’amministrazione Obama a quella Trump. Le ammissioni di Flynn, e l’evidente tentativo di patteggiamento che vi sottostà, costituiscono un chiaro salto di qualità nell’inchiesta del procuratore speciale Robert Mueller sulle collusioni tra l’entourage di Trump e la Russia durante la campagna elettorale e nei mesi successivi. Flynn è stato uno dei consiglieri più ascoltati e influenti del Presidente; Trump si è più volte esposto a sua difesa e prima di licenziarlo ha addirittura cercato di convincere l’allora direttore dell’FBI, James Comey, a non procedere nelle indagini nei confronti dell’ex militare.
Nella vicenda e nell’inchiesta sembrano convergere tante dinamiche diverse: la dilettantesca spregiudicatezza di Trump e dei suoi; la reazione di un establishment di politica estera e di sicurezza che, per convenienza e convinzione, spera di poter condizionare o addirittura far cadere questa amministrazione; la pavidità di un partito repubblicano che ha giocato col fuoco di un populismo demagogico e violento e che ora – con Trump alla Casa Bianca e una base che ancora lo sostiene e appoggia – ne è di fatto ostaggio.
Difficile immaginare che il cerchio non sia destinato a stringersi. Che le confessioni di Flynn non alimentino ancora di più la slavina partita già alcune settimane fa con l’arresto del primo manager della campagna elettorale di Trump, Paul Manafort. Che, insomma, in qualche modo anche Trump non sarà infine coinvolto. Se, o meglio quando, ciò accadrà la possibilità di un impeachment e di una fine prematura della Presidenza diventeranno assai più concrete.
Cosa ne seguirà e quali scenari si possono prospettare? Due, in estrema sintesi, sono le ipotesi realistiche.
A indicarci la prima è proprio la riforma fiscale votata dal Senato e che ora andrà conciliata col testo, in parte diverso, licenziato invece dalla Camera. Una riforma, questa, radicale ed estrema nella filosofia supply side che la ispira e nelle conseguenze che presumibilmente avrà sui conti pubblici, di loro già in sofferenza, del paese. E una riforma totalmente partigiana, frutto di compromessi e mediazioni tutti interni al partito repubblicano, ottenuta senza un singolo voto democratico (33 democratici su 45 votarono ad esempio per i tagli voluti da Reagan nel 1986 e 12 su 42 quelli di Bush Jr nel 2001). Una riforma, insomma, che esprime in modo paradigmatico sia la radicalizzazione del partito repubblicano sia la polarizzazione di un sistema politico incapace di produrre moderazione e generare compromessi. Due elementi, radicalizzazione e polarizzazione, che potrebbero proteggere Trump, come in fondo è avvenuto finora. Soprattutto se la base, militante e conservatrice, del partito continuerà a stare dalla parte del Presidente, offrendogli una sorta di polizza contro possibili defezioni e sfide (e stando alle rivelazioni Gallup il tasso di approvazione dell’operato di Trump tra i repubblicani è addirittura cresciuto dall’estate a oggi). E allora il primo scenario è quello di uno scollegamento tra le scoperte dell’inchiesta e i suoi effetti politici, che potrebbero ridursi a vedere rotolare alcune teste oltre a quelle già cadute e, magari, a un Congresso che infine salva il Presidente da un impeachment di suo complicato da raggiungere (l’approvazione richiederebbe infatti un voto a maggioranza semplice della Camera e uno a maggioranza qualificata di due terzi del Senato).
La seconda ipotesi, invece, è quella di una slavina capace di acquisire una forza tale da divenire irresistibile, a maggior ragione se i numeri al Congresso dovessero farsi più sfavorevoli al Presidente in conseguenza delle elezioni di mid-term del novembre prossimo. Ulteriori rivelazioni sulle collusioni con Mosca e sulle ingerenze di quest’ultima nella vita politica statunitense potrebbero generare una reazione (e una mobilitazione) non più contenibili. E allora l’impeachment potrebbe essere qualcosa di meno improbabile. Con scenari ed esiti difficili però da immaginare, a partire dalla reazione del Presidente e di una base trumpiana difficilmente disposti ad accettarne le conseguenze.

Il Mattino, 3 dicembre 2017

Un anno dopo

È stato un anno turbolento, quello appena trascorso da quando l’America scioccò il mondo scegliendo come suo Presidente Donald Trump. Forse anche più turbolento delle aspettative.
Un anno al termine del quale gli Stati Uniti si trovano ancor più divisi e polarizzati, Trump non si è fatto nemmeno un po’ più “presidenziale”, la disaffezione verso la politica e le istituzioni rimane forte ed estesa nel paese e scandali potenzialmente rilevanti minacciano un’amministrazione che in questi pochi mesi ha visto ha visto un turnover di personale senza precedenti.
Qualsiasi bilancio non può che essere provvisorio e parziale. Eppure è possibile cercare d’individuare una serie di successi e fallimenti dell’amministrazione repubblicana. Tra i primi ve ne sono almeno cinque, a partire dal banale fatto che Trump non è oggi più debole politicamente di quanto non fosse già in gennaio. I tassi di approvazione del suo operato erano e rimangono straordinariamente bassi, i più bassi di sempre: il 45%, secondo Gallup, in gennaio; il 38% ora. La variazione – il 7% – è però assai contenuta e da tempo stabile; nello stesso periodo, Obama scese dal 67 al 49%. Soprattutto, il persistente, solido sostegno della base elettorale repubblicana (addirittura sopra l’80%) costituisce ancora la variabile dirimente nel determinare le sorti del Presidente e nel proteggerlo da possibili iniziative del Congresso. Un secondo successo di Trump è rappresentato dall’efficace opera di svuotamento per via amministrativa di una parte del lascito obamiano, soprattutto in materia di politiche ambientali. Anzi, il Presidente sembra seguire proprio la linea tracciata dal suo predecessore nel fare ampio uso dello strumento delle indicazioni attuative alle burocrazie competenti per surrogare quella semiparalisi legislativa che pare costituire la cifra distintiva della moderna democrazia statunitense. Terzo successo: l’economia. Sulla quale incide ovviamente l’onda lunga dei buoni risultati ottenuti dalla Presidenza Obama, ma che vede il PIL crescere di più del 3% nel 2017, una disoccupazione saldamente sotto il 4.5% e la borsa che torna a correre e, forse, surriscaldarsi (l’indice Dow Jones segna un +18% da gennaio a oggi). Quarto: la stabilizzazione di un’amministrazione che inizialmente ha perso vari, importanti pezzi – il Consigliere della Sicurezza Nazionale, Michael Flynn, addirittura dopo sole tre settimane – ma che oggi sembra avere trovato una sua quadratura e nel quale centrale è il ruolo di militari che, anche per la straordinaria popolarità delle forze armate, garantiscono una copertura politica e di consenso al Presidente. Infine, quinto e ultimo, la nomina di un giudice conservatore alla Corte Suprema, Neil Gorsuch, e la possibilità quindi di alterare a lungo gli equilibri in questa fondamentale istituzione.
Gli insuccessi sono però parimenti rilevanti e, forse, anche più pesanti. A dispetto delle aspettative e degli auspici, Trump continua a rivelare uno sconcertante deficit di “presidenzialità”: i suoi tweet, la sua impreparazione, la frequente volgarità delle sue dichiarazioni concorrono a un degrado del discorso pubblico e politico dal quale si fatica a intravedere una via d’uscita. Come ben evidenziano i successi democratici nelle recenti elezioni dei governatori di New Jersey e Virginia, questi comportamenti alimentano una mobilitazione ostile al Presidente che pare offrire la principale risorsa a un partito democratico di suo diviso e in difficoltà. Non positiva all’interno degli Usa, l’immagine di Trump è ampiamente negativa in gran parte del mondo, a partire dall’Europa, dove i livelli d’impopolarità del Presidente superano addirittura quelli di George Bush Jr. al termine del suo mandato nel 2008. Un anno di Trump, insomma, ha indebolito ancor più la credibilità globale degli Stati Uniti. Sotto questa nuova guida, infatti, gli Usa appaiono essere un ulteriore elemento di turbamento di un ordine internazionale di suo fragile e vulnerabile. Per quanto non realizzate, dall’ambiente al commercio alla sicurezza, le parole d’ordine trumpiane sembrano scardinare la fragile architettura della governance mondiale senza offrire credibili alternative. Anche perché il presunto pilastro di una nuova strategia statunitense – l’asse con la Russia putiniana – è ben presto caduto vittima di uno scandalo, quello delle ingerenze russe nella campagna elettorale del 2016, che potrebbe davvero travolgere l’amministrazione. E mentre permane il mistero su un possibile incontro odierno tra il Presidente statunitense e quello russo, l’ombra di questo scandalo continua ad aleggiare torva sul presente e il futuro di Donald Trump.

Il Mattino, 10 novembre 2017

Trump in Asia

È un viaggio davvero importante, verrebbe voglia di definirlo cruciale, quello che Donald Trump sta compiendo in Asia e che dopo il Giappone lo porterà in Corea del Sud, Cina, Vietnam e Filippine. Perché è sulle rotte asiatiche e transpacifiche che corrono – complesse, contradditorie e minacciose – alcune delle interdipendenze più significative dell’ordine internazionale corrente.
Tre, in particolare, sono i dossier fondamentali. Il primo è rappresentato dalla relazione tra Cina e Stati Uniti. Che si caratterizza per la compresenza di collaborazione e rivalità, forme oggettive di convergenza e finanche integrazione (in particolare in ambito economico) e tentazioni competitive potenzialmente molto pericolose. Direttamente legato a questo primo elemento vi è il secondo dossier, costituito da un’architettura di sicurezza regionale fragile e parziale. Che rimane americano-centrica, laddove gli Stati Uniti continuano a costituire il principale fornitore di sicurezza attraverso una serie di accordi bilaterali con cui gli Usa estendono la loro protezione militare a vari soggetti regionali, a partire da quello giapponese. Ma che non è organizzata e istituzionalizzata come sullo spazio nord-atlantico, grazie alla Nato. E che è oggi soggetta a varie sfide: quella della Cina, che cerca di estendere la sua presa, alzando la soglia della tensione con i vicini (Giappone e Vietnam su tutti) e investendo pesantemente in difesa (un +7% nel 2017); quella della Corea del Nord, che non solo si dota di un deterrente nucleare, ma, con i suoi atti minacciosi e le sue dichiarazioni roboanti, rischia di scatenare una corsa regionale agli armamenti che esaspererebbe le relazioni tra i soggetti dell’area e scardinerebbe definitivamente il fragile ordine regionale; quella, infine, degli stessi alleati degli Usa, che anche per ragioni di politica interna sembrano sempre più attratti da soluzioni unilaterali con cui affrancarsi dalla dipendenza strategica nei confronti di Washington.
Terzo e ultimo: il commercio. Con la Cina che è diventata il soggetto egemone in termini di scambi e investimenti. Con molti stati asiatici preoccupati da ciò e dalle sue implicazioni per la loro sicurezza e sovranità. E con gli Stati Uniti di Trump incapaci di mettere in asse il loro primato strategico con la loro decrescente centralità commerciale, anche a causa del definitivo affondamento del Trattato di Libero Scambio Transpacifico (TPP) che tra le altre cose doveva permettere di bilanciare questo primato cinese.
Ci vorrebbe una mano cauta, attenta, competente e, anche, fortunata per gestire un simile, complicatissimo intreccio. Ahimè, quella mano non sembra oggi risiedere alla Casa Bianca, come queste prime tappe del viaggio di Trump hanno ben rivelato. Il discorso rozzo e semplificato del Presidente sembra anzi acuire i problemi e infiammare le tensioni sia con la Cina sia con gli alleati degli Usa. Trump, è ovvio, parla a quella pancia conservatrice della sua opinione pubblica interna dal cui sostegno dipendono in ultimo le sue sorti politiche. Lo fa accusando il Giappone per surplus commerciali che però derivano dalla maggiore competitività di Tokyo più che da pratiche scorrette o svalutazioni competitive; minacciando la Nord Corea e promettendo soluzioni militari difficilmente praticabili; sfidando, infine, una Cina della cui collaborazione gli Usa hanno in realtà molto bisogno. Agendo, in altre parole, come fattore di destabilizzazione di un ordine asiatico di suo immensamente delicato e complesso.

Giornale di Brescia, 8 novembre 2017

Russiagate: è partita la slavina?

La slavina era lì, che attendeva da tempo di essere innescata. Perché se è vero che sono tante le commissioni congressuali che hanno aperto delle inchieste sulle presunte ingerenze russe nella campagna elettorale che ha portato Trump alla Casa Bianca è altresì vero che l’indagine più importante, che può davvero far cadere questo Presidente, è quella condotta, su nomina del dipartimento della Giustizia, dall’ex direttore dell’FBI Robert Mueller. Ieri Mueller ha proceduto a mettere in stato d’accusa l’ex manager della campagna elettorale di Trump, Paul Manafort, e il suo partner in affari, Rick Gates. Separatamente, un altro ex consigliere di Trump, George Papadopoulos, ha ammesso di avere mentito in merito a un suo incontro avvenuto nell’aprile del 2016 con un emissario russo che prometteva di offrire informazioni compromettenti su Hillary Clinton.
Manafort e Gates sono accusati per fatti non direttamente collegati alle elezioni dell’anno scorso. I capi di accusa – riciclaggio, evasione fiscale, mancato rispetto delle leggi in materia di lobbying all’estero – si riferiscono alle attività di consulenza svolta da Manafort per il governo ucraino filo-Putin (e, in seguito, per l’opposizione al nuovo esecutivo di Kiev formatosi nel 2014). La strategia di Mueller appare però chiara: stringere il cerchio attorno ad alcuni di coloro che furono i più stretti collaboratori di Trump per individuare legami con le ingerenze di Mosca e, ancor più, costringerli a cercare un qualche patteggiamento in cambio d’informazioni che permettano di fare luce su tali ingerenze. Altre indagini parallele sono in corso di svolgimento, a partire da quella sull’ex Consigliere per la Sicurezza Nazionale di Trump, il generale Michael Flynn, rimasto in carica solo pochi giorni prima che venissero rivelate sia le suo menzogne sugli incontri con l’ambasciatore russo sia le sue consulenze, retribuite e non riportate, per il governo turco.
È una storia torbida e di difficile decrittazione, quella su cui sta indagando Mueller. Nella quale convergono ovviamente varie dinamiche: l’atteggiamento spregiudicato della famiglia Trump rispetto a un conflitto d’interessi – tra il loro impero immobiliare e il loro ruolo politico – non gestito e forse non gestibile; le possibili, dirette collusioni, tra una potenza straniera, la Russia, desiderosa d’impedire una vittoria della Clinton, e un candidato pronto a tutto e privo, come ha più volte dimostrato, di qualsiasi, elementare senso delle istituzioni; un establishment washingtoniano, di cui anche i vertici dell’intelligence fanno parte, pronto a usare qualsiasi mezzo contro un Presidente ritenuto pericoloso, per il paese e, anche, per i propri privilegi.
E lo scontro in atto sembra essere anche questo: l’azione di un’élite ostile a Trump per ragioni nobili (la difesa delle istituzioni, appunto, e la tutela di una sicurezza nazionale che, se fossero confermate le accuse, sarebbe stata violata dalle ingerenze russe) e meno nobili (l’autodifesa corporativa contro l’assalto mosso dal populismo trumpiano). L’altra partita si gioca però tutta all’interno del partito repubblicano. Perché il lungo e tortuoso percorso che potrebbe eventualmente portare all’impeachment del Presidente è un processo politico realizzabile solo laddove una maggioranza dei repubblicani al Congresso scaricassero Trump. Ovvero quando questa opzione divenisse politicamente (ed elettoralmente) vantaggiosa se non addirittura necessaria. A quello stadio non si è ancora giunti. Anzi, a oggi Trump preserva un ampio sostegno tra una base repubblicana che, sondaggi alla base, continua a minimizzare o negare la rilevanza dello scandalo russo anche laddove esso fosse confermato dall’inchiesta di Mueller. Ovviamente, nuove scoperte e rivelazioni potrebbero modificare questo stato di cose, alterando gli umori di un’opinione pubblica conservatrice finora schierata senza remore dalla parte del Presidente. Una svolta, però, che cozza contro forme di polarizzazione politica ed elettorale che sembrano costituire la vera cifra distintiva degli Usa oggi. Di un paese, cioè, diviso in due campi sempre più distanti e incapaci di comunicare. Dove il fattore primario di mobilitazione diventa l’ostilità alla controparte. E dove qualcuno come Donald Trump può non solo diventare Presidente, ma addirittura rischiare di rimanere al suo posto anche laddove fossero scoperte sue collusioni con uno stato estero quali quelle su cui sta indagando Mueller.

Il Mattino, 31 ottobre 2017

Pistole fumanti?

L’ha gestita con indubbia maestria, Donald Trump. Ha fatto quel che qualsiasi altro Presidente avrebbe fatto (e dovuto fare): rendere pubblici, alla scadenza prevista dei 25 anni, migliaia di documenti ancora secretati (in parte o totalmente) relativi all’assassinio di John Kennedy, accettando però la richiesta degli apparati d’intelligence di mantenere una proroga di altri sei mesi per alcuni materiali particolarmente sensibili. Accompagnando il processo con i suoi tweet conditi dagli immancabili punti esclamativi, Trump ha celebrato questo momento di “grande trasparenza” e l’abbattimento degli spessi diaframmi che ancora esistono tra potere e popolo, eletti e loro rappresentanti.
Poco può, però, il populismo trumpiano contro l’inevitabile delusione di chi sperava di trovare in questi documenti risposte se non definitive almeno rivelatrici. In grado, cioè, di sollevare alcune delle tante opacità che ancora circondano la vicenda.
Nessuna pistola fumante, insomma. Nessun aiuto a comprendere se Oswald, l’assassinio di Kennedy, abbia quantomeno goduto di una rete di appoggi e aiuti; o se vi fosse qualcuno dietro Jack Ruby, il proprietario di nightclub che uccise Oswald due giorni più tardi. È probabile, anzi certo, che quelle pistole fumanti non vi siano nemmeno nei documenti rimasti secretati. Perché non esistono; o perché, se mai fossero davvero esistite, è difficile credere che non siano state distrutte.
Allo storico, di suo diffidente verso i complotti e le teorie cospirative, restano però migliaia di documenti che si aggiungono ai tanti già esistenti. Documenti che non permettono di smentire la tesi ufficiale sull’uccisione di JFK. Ma che aiutano a capire meglio il clima dell’epoca, la pervasività della guerra fredda tra Usa e Urss, il suo impatto politico, culturale e sociale dentro gli Stati Uniti, l’ossessione americana per la “perdita” di Cuba, il peso della questione razziale e l’odio del sud segregazionista verso un Presidente, Kennedy, che sui diritti civili aveva in realtà fatto assai poco.
Tre, in particolare, sembrano essere le indicazioni principali offerte da queste nuove fonti. La prima è l’assoluta centralità di Cuba e di Fidel Castro, destinata a protrarsi ben oltre la crisi dei missili dell’ottobre 1962 e lo stesso assassinio di Kennedy. Uno stato filosovietico a pochi chilometri dalle coste statunitensi minacciava di alterare gli equilibri strategici e costituiva un pericoloso precedente in tutto l’emisfero. Soprattutto, rappresentava un’umiliazione che si riverberava politicamente dentro gli stessi Stati Uniti, con una comunità di esuli anti-castristi destinata a svolgere un importante ruolo in uno stato cruciale come la Florida e uno scontro, durato fino ad oggi, su quale linea tenere nei confronti de L’Avana. I documenti non aggiungono nulla di particolarmente piccante a quanto non rivelarono già le commissioni d’inchiesta del Congresso negli anni Settanta (e, in altra salsa, le storie della muta da sub avvelenata da regalare a un ignaro Castro o le conchiglie esplosive da deporre nel mare dove nuotava il leader cubano erano già note). Ma ci ricordano il peso politico e simbolico spropositato avuto da Cuba e dalla sfida del castrismo.
Il secondo elemento evidenzia come i paraocchi ideologici della Guerra Fredda potessero generare pericolosi fraintendimenti dei comportamenti e degli obiettivi degli avversari. Stando agli informatori dell’FBI, in Unione Sovietica si temette che l’eliminazione di Kennedy fosse parte di un golpe promosso dalla ultra-destra contraria a qualsiasi accomodamento con Mosca e pronta a invadere Cuba (una lettura non dissimile, sappiamo, fu data in occasione dell’attentato a Reagan nel marzo del 1981). Uno stato di allerta estrema ne seguì con tutti i rischi del caso.
Terzo e ultimo: le torbide interazioni tra politica, malavita e spettacolo, sulle quali si gettò con invariabile voracità l’FBI di Edgar Hoover. L’America kennediana – raccontano molti di questi documenti – è un’America di gangster, attori, ballerine; di escort che dichiarano all’FBI di essere state contattate per partecipare a festini con John Kennedy, Frank Sinatra e Sammy Davis Jr. o di manoscritti inediti che rivelano nuovi dettagli su presunte storie tra Marilyn e Bobby Kennedy, il fratello minore di John (oltre che suo ministro della Giustizia). Un’America, insomma, dove la possibilità che ci fossero altri dietro Oswald non è probabilmente vera, ma non può non apparire verosimile.

Il Mattino, 28 ottobre 2017