Mario Del Pero

Generale

Incertezze e incoerenze bideniane

Biden prima annuncia di voler disattendere la sua promessa di alzare in modo significativo da 15mila e 62,500 il numero di rifugiati poi indietreggia precipitosamente sotto il fuoco incrociato di ONG e sinistra democratica ( (anche se non è chiaro come ne uscirà e la promessa sarà comunque disattesa). Nel mentre fatica a gestire la crisi al confine meridionale provocata dal massiccio aumento del numero di minori non accompagnati che cercano di entrare nel paese, frutto della convergenza di diversi fattori esogeni – a partire dalla pandemia – ma che è ovviamente stimolato dalla sconfitta di Trump e dal messaggio diverso, e decisamente più civile/decente, che giunge oggi dalla Casa Bianca. Le oscillazioni e le incertezze di Biden originano dalla evidente consapevolezza che è su questo che i repubblicani possono costruire una offensiva politica efficace, capace di garantire un ritorno elettorale al mid-term del 2022. Ma rifugiati e immigrazione ci mostrano anche i potenziali cortocircuiti di una politica di America First e di disimpegno globale declinata in termini fortemente progressisti come quella di Biden

DI PATRICK ZAKI, DELLA CREDIBILITA’ E DELLA POLITICA ESTERA

Il Senato italiano vota a larghissima maggioranza, e con la sola astensione dei rappresentanti di Fratelli d’Italia, una mozione con la quale si chiede di attivare la procedura di concessione della cittadinanza italiana a Patrick Zaki, lo studente egiziano dell’università di Bologna arrestato dalle autorità del suo paese nel febbraio del 2020. Un voto importante, quello del Senato, anche se dal valore precipuamente simbolico, perché sollecita l’avvio di un iter – quello appunto della concessione della cittadinanza – complesso e tortuoso. La simbologia è indubbiamente forte, a maggior ragione quando accompagnata dalle parole potenti della senatrice a vita, sopravvissuta ad Auschwitz, Liliana Segre, giunta a Palazzo Madama appositamente per l’occasione. Ma la simbologia di certo non basta e deve essere accompagnata da un’azione più incisiva, coraggiosa e netta del governo italiano così come dell’Unione Europea. Azione che fino ad oggi è ahimè mancata, non di rado per un malinteso senso di cosa sia e come debba essere condotta una politica estera realista ed efficace, capace di tutelare l’interesse del nostro paese, dell’Europa e dei suoi cittadini.

Quello egiziano è a tutti gli effetti uno sfregio: una deliberata umiliazione verso un paese che già chiede, da tempo e inutilmente, sia fatta luce sull’orribile omicidio di Giulio Regeni nel 2016. Intendiamoci, l’Italia è strumento e veicolo, non obiettivo, di questa umiliazione. L’Italia e altri paesi europei, che Zaki non è l’unico studente egiziano all’estero arrestato negli ultimi anni. Agire impunemente come il Cairo sta facendo nei confronti nostri e di altri membri della UE serve per dare un doppio messaggio: alla propria opinione pubblica e a quella internazionale. Alla prima si comunica che lo spazio di oppressione e se necessario di violenza si estende ben al di là dei confini egiziani; che non esistono zone franche dove poter esprimere le proprie critiche all’autoritario regime di al-Sisi come ha fatto l’attivista per i diritti umani Zaki; che nemmeno dentro lo spazio per eccellenza della libertà politica e intellettuale – quello dell’università, e nella fattispecie di una università italiana ed europea – un giovane egiziano può oggi sentirsi sicuro.

Al mondo e all’Europa si comunica invece che non si accettano né ingerenze né lezioni. Che le mozioni e le risoluzioni parlamentari, le manifestazioni di piazza, le mobilitazioni, le iniziative meritorie delle istituzioni universitarie possono poco o nulla. Che ci si può permettere Zaki non nonostante Regeni ma grazie a quel precedente. Che un’Italia e una Europa incapaci di proteggere un proprio cittadino, o di avere la verità sulla sua uccisione, di certo non possono accampare pretese verso un egiziano. È un’umiliazione, si diceva; che espone deliberatamente le fragilità e le ipocrisie europee; che rivela lo scarto tra la retorica dell’Europa, nella quale tanto centrali sono i diritti umani e le libertà politiche, e la sua capacità di garantirli e proteggerli. Ecco perché perché le azioni simboliche, le condivisibili mozioni approvate a Roma o Bruxelles, non bastano. Perché esse debbono essere integrate da una più decisa azione diplomatica, che passi se necessario anche attraverso dure sanzioni economiche. Non è una solo una questione di dignità e di decenza, per quanto importanti esse siano. E non riguarda solo la liberazione di Patrick Zaki, per quanto essa sia e debba essere la nostra priorità. Ne va, molto banalmente, della credibilità delle nostre democrazie e del progetto europeo. E per buona pace di chi tende a scambiare cinismo per realismo e i princìpi per ingenuità, senza credibilità – la storia ci insegna – nella politica internazionale difficilmente si ottiene qualcosa.

Il Giornale di Brescia, 15 aprile 2021

ARMI E ORDINI ESECUTIVI

Sono azioni piuttosto limitate quelle adottate da Biden, attraverso alcuni ordini esecutivi, per cercare d’introdurre controlli più severi sulla diffusione e vendita di armi da fuoco. Provvedimenti almeno in parte simbolici, a partire dal tentativo di obbligare alla registrazione delle “armi fantasma”, prodotto di assemblaggi tra pezzi diverse con un prodotto finito non registrato e quindi tracciabile. La sfida è ovviamente ben più ampia, avrebbe bisogno di un’azione legislativa assai difficile da ottenere con gli attuali numeri al Congresso (con un senatore democratico, Joe Manchin della West Virginia, che chiaramente sfrutta il suo peso decisivo al Senato e che sul tema ha posizioni diverse dalla maggioranza del suo partito e comunque con l’ostacolo, su questo davvero insormontabile, del filibuster). Ed è una sfida improba, che nonostante l’indebolimento del NRA il tema delle armi e del loro controllo rimane intrappolato dentro un camice di forza altamente ideologico, in cui il II emendamento viene totalmente destoricizzato e usato come feticcio per giustificare l’ingiustificabile (e il poco razionale). Qualcuno dovrebbe banalmente spiegare in che modo i diritti sanciti da quell’emendamento verrebbero mai violati introducendo la registrazione delle armi da fuoco vendute alle fiere o online, e imponendo dei limiti alla capacità dei caricatori o fissando dei banali controlli retroattivi sugli acquirenti. Tutti gli studi di cui disponiamo evidenziano una correlazione tra il numero di morti per arma da fuoco – omicidi, suicidi (che sono poi la maggioranza) e incidenti e morti involontarie – anche nei casi di mass shootings, e la severità o meno della legislazione statale e municipale (qui gli ultimi dati, che evidenziano ancora una volta la forte differenza nella distribuzione delle vittime di armi che oscilla tra i 20-25 morti per 100mila abitanti di Alaska, Mississippi, Wyoming, New Mexico, Alabama, Louisiana e Missouri, e gli appena 3/4 di quelli come New York, Massachussetts e New Jersey, sì proprio il New Jersey dei Soprano …, che hanno adottato una legislazione più severa). E a me la memoria torna a uno dei dibattiti delle primarie repubblicane del 2008 e allo sguardo scocciato e di sufficienza del povero McCain, uno che le armi le conosceva un po’ meglio e più da vicino, verso gli altri candidati repubblicani che facevano a gara a chi le armi le conosceva, maneggiava e difendeva meglio …

MOZART A OXFORD

Gli eccessi di una certa « cancel culture » e del politicamente corretto sono sotto gli occhi di ognuno di noi. E però sensazionalismo, cattiva lettura delle fonti (cosa per la quale noi storici dovremmo stare doppiamente attenti), contro-pregiudizio – per il quale qualsiasi normale adattamento dei curricula (santo cielo una volta a Columbia c’era un corso di Western Civilization, “From Plato to Nato”, che oggi ci farebbe saltare sulla sedia) diventa una forma di cancellazione di secoli di sapere – tutto questo converge nel far partire strali immotivati che, tra le altre cose, fanno gioco sia dei talebani della “cancel culture” sia di reazionari che su questa ultima partita cercano di trovare una nuova forma di legittimazione politica e culturale. L’ultima riguarda ancora una volta l’università di Oxford, già accusata di voler cancellare i classici (non era ovviamente vero), che ora discuterebbe di eliminare Mozart e Beethoven – esponenti di una cultura bianca, coloniale e maschile – dai suoi curricula. A lanciare l’allarme è stato il Telegraph, non proprio la fonte più neutra e affidabile, poi ripreso da Breitbart, Blaze e robaccia simile, utilizzando una serie di scambi tra di docenti di Oxford. Scambio nei quali alcuni di essi sollecitavano a diversificare il curriculum aprendolo a tradizioni ed esperienze musicali extra-europee. Nessun riferimento alla cancellazione di Mozart & co., ci mancherebbe, come fanno sapere da Oxford. E un invito, quindi, a fare molta, molta attenzione, che se rispetto a tutto ciò non si mantiene un atteggiamento un attimo laico e obiettivo si rischia davvero di finire schiacciati tra i due estremi.

LE INFRASTRUTTURE DI BIDEN

Tra qualche ora Biden annuncerà un piano ambizioso e monumentale d’investimenti infrastrutturali. Sotto vi sono le varie voci di spesa per come sono state dettagliate dal Times oggi. Poi la partita passerà al Congresso, dove rischia di arenarsi o di essere drasticamente ridotto (già alla Camera paiono esservi difficoltà; al Senato i 60 voti non si vedono neanche col binocolo, almeno non si voglia ricorrere un’altra volta alla reconciliation, cosa che Schumer non sembra voler escludere)

Quattro considerazioni quattro:

  1. Lo stato delle infrastrutture negli Usa è a dir poco pessimo, come sa chiunque li conosca e vi abbia un po’ viaggiato. Treni costosi e iper-lenti; strade e ponti malandati; connessioni internet lentissime o assenti. Difficile trovare immagine migliore dei pali di legno piegati sotto il peso di decine di cavi di utilities spesso dismesse che adornano le strade di tanti cittadine e sobborghi statunitensi.
  2. I contenuti del programma di Biden sembrano indicare ancora una volta la volontà di promuovere un’agenda tanto ambiziosa nelle dimensioni quanto progressista negli indirizzi
  3. C’è un ampio consenso nel paese sulla necessità di aumentare anche in modo significativo gli investimenti in infrastrutture. Consenso che Trump cavalcò nel 2016 salvo non fare poi letteralmente nulla al riguardo (e questo è uno dei tanti ambiti dove lo scarto tra retorica e azione è stato, con Trump, particolarmente marcato)
  4. Per questo l’opposizione repubblicana si concentrerà non tanto, o primariamente, sui contenuti delle proposte di Biden o sui loro effetti sui conti pubblici e sul deficit, ma sulle modalità di finanziamento, in particolare la proposta di aumentare la corporate tax, la tassa sui profitti d’impresa, che Biden vorrebbe portare al 28% dall’attuale 21 (ma era il 35 prima delle riforma di Trump del 2017)

https://www.nytimes.com/interactive/2021/03/31/upshot/whats-in-bidens-infrastructure-plan.html?action=click&module=RelatedLinks&pgtype=Article

 

Turbolenze globali

Cosa sta succedendo al contesto internazionale in queste settimane fitte di vertici, tensioni e polemiche? Quanto sul serio dobbiamo prendere le accuse incrociate, e finanche le aggressioni verbali, tra i leader di Stati Uniti, Russia e Cina? E, infine, che ruolo e che scelte spettano all’Europa?

Proviamo a mettere ordine partendo da una banale schematizzazione della gerarchia di potenza odierna per poi soffermarci sulle contraddizioni e le fragilità del sistema. Vi è un egemone, una potenza superiore, ancora incontrastato e sono gli Stati Uniti: l’unico attore dal raggio, dalle capacità e dagli interessi davvero globali. Vi è un soggetto in ascesa, la Cina, che all’egemone è legato da una fitta rete d’interdipendenze economiche e strategiche, ma che vuole finalmente mettere in asse la sua potenza economica con la sua influenza effettiva e che su scala regionale, nell’Asia-Pacifico, ha mire esplicite e mal sopporta il primato americano. Vi è un attore primariamente parassitario, la Russia, che non ha di certo i mezzi per competere con Washington e Pechino, ma che sa sfruttare, con cinismo e abilità,  le opportunità e i varchi che le si aprono. Vi è un’Europa al solito incapace di conciliare potenzialità e risultati, divisa al proprio interno e probabilmente chiamata a schierarsi dentro questa nuova contesa. E vi sono infine opinioni pubbliche non di rado catturate da lessici nazionalisti e sovranisti, più o meno sovraccarichi, spaventate da dinamiche d’integrazione globale in parte delegittimate e che, come nel caso della pandemia, rivelano tutto il loro potenziale distruttivo.

In questo contesto, a “dare le carte” – a dettare tempi e temi del confronto – è inevitabilmente la potenzia superiore ossia gli Usa. Nel farlo, l’amministrazione Biden esplicita obiettivi, mezzi ma anche contraddizioni e limiti della sua strategia. Lo scopo primario per gli Usa non è certamente scatenare una nuova guerra fredda – l’analogia storica più abusata e inappropriata di cui si sta facendo uso – ma di costruire un fronte ampio finalizzato a contenere l’influenza della Cina, moderarne le pretese espansionistiche in Asia e condizionarne politiche economiche non di rado corsare e irrispettose delle regole. Un’azione, questa, che corre in parallelo con piani di rilancio dell’economia statunitense che nei loro espliciti intenti redistributivi ambiscono anche a rispondere al malcontento su cui capitalizza un sovranismo che tracima spesso in ostilità assoluta nei confronti della Cina, rendendo qualsiasi dialogo e concessione politicamente intollerabile. Per schematizzare, l’amministrazione Biden mira a moderare tanto la Cina quanto la sinofobia cavalcata (e alimentata) dalla destra trumpiana, nella consapevolezza che l’una si nutre  dell’altra in una spirale che rischia di andare fuori controllo (e che per certi aspetti già ci è andata). Emblematica a tale riguardo è stata l’irrituale e invero bizzarra apertura del summit bilaterale sino-statunitense di Anchorage. Dove le due parti si sono scambiate in pubblico violente accuse reciproche in un’escalation che ha lasciato stupefatti gli stessi giornalisti presenti.

Russia ed Europa non sono comprimari, ci mancherebbe, ma stanno un scalino sotto e la loro capacità d’iniziativa autonoma è molto più ridotta. Mosca paventa assi strategici con la Cina e grandi iniziative di affrancamento da uno dei pilasti dell’egemonia statunitense – il dominio del dollaro – meno visibili e più incisivi. Può però fare poco ovvero può contestare e turbare più che ambire a guidare una ridefinizione degli equilibri globali di potenza. L’Europa, infine, si trova di fronte a dei crocevia. Privilegiare quello atlantico – la scelta più probabile e per molti aspetti obbligata – vuol dire rilanciare la relazione speciale con gli Usa, guidare un’offensiva multilaterale su alcuni dossier fondamentali, a partire da quello ambientale, e godere della protezione che ne consegue. Significa però anche rimettere nel cassetto i disegni di autonomia strategica e, soprattutto, dover dare risposta alle pressioni americane affinché anche l’Europa assuma una linea di maggior fermezza verso Pechino.

Il Giornale di Brescia, 29 marzo 2021

Di Biden e di Putin

Un’intervista del presidente Biden alla rete televisiva ABC nella quale Biden ha risposto affermativamente alla domanda se ritenesse Putin un “killer”. E la pubblicazione di un rapporto dei servizi d’intelligence statunitensi nel quale si torna a puntare il dito sulle interferenze russe nella campagna elettorale statunitense. Interferenze, afferma il rapporto, autorizzate direttamente da Putin, finalizzate ad aiutare Trump, acuire le divisioni del paese e denigrare Biden attraverso “affermazioni infondate o fuorvianti” sul suo conto. Sono bastate questa intervista e questo rapporto a provocare un rinnovato attrito tra la Russia e gli Stati Uniti, con Washington che promette nuove sanzioni – dopo le ultime adottate in conseguenza del caso Navalny – e Mosca che denuncia l’infondatezza delle accuse e promette risposte.

Cosa ci dice tutto ciò? E c’è davvero da preoccuparsi per una possibile escalation delle tensioni tra quelle che rimangono, a volte lo si dimentica, le due grandi potenze nucleari del sistema internazionale? Per quanto sia giusto non minimizzare, la risposta è probabilmente negativa, che almeno parzialmente di gioco delle parti – alimentate anche dai media – si tratta.

Biden attacca con questi toni (eccessivi) la Russia per almeno due ragioni. La prima è che il rapporto dell’intelligence statunitense conferma quel che già era noto: che vi fosse Mosca dietro il fango lanciato contro il Presidente durante la campagna elettorale; e che giungessero dalla Russia i dossier che il fronte trumpiano, e lo stesso ex Presidente in occasione del secondo dibattito televisivo, cercarono senza successo di utilizzare. Dossier, questi, di cui si fece promotore soprattutto l’ex sindaco di New York Rudy Giuliani tanto che nel rapporto si fa esplicitamente riferimento al coinvolgimento di “importanti individui statunitensi, inclusi alcuni vicini al Presidente Trump e alla sua amministrazione”. Che la reazione di Biden fosse risoluta e dura, accompagnata dalla promessa che Putin “pagherà” per tutto ciò, era largamente inevitabile. La seconda spiegazione della reazione del Presidente statunitense è che la linea della  fermezza raccoglie negli Usa un consenso ampio e trasversale: nel paese così come nel mondo politico. La volontà di Trump di rilanciare i rapporti con la Russia s’infranse a suo tempo sugli scogli di un’ostilità cresciuta esponenzialmente negli ultimi dieci anni, in particolare dopo la crisi ucraina del 2014 (gli ultimi dati Gallup indicano che più del 70% degli americani danno un giudizio negativo della Russia, la percentuale più alta dalla dissoluzione dell’URSS).

A Putin la situazione dispiace fino a certo punto. Le sanzioni mordono e incidono su un’economia fragile e un paese di suo molto più debole di quanto non si creda. Ma l’ostilità statunitense e i toni bellicosi di Biden fanno un po’ il suo gioco: rispondervi a tono costituisce un elemento centrale sua retorica nazionalista e della sua postura virile.

In parallelo però si negozia sul terreno cruciale, l’indissolubile comune denominatore bipolare, rappresentato dalle armi nucleari. Anzi, nella stessa intervista televisiva Biden ha utilizzato una metafora da vecchia America – si può “camminare e masticare il chewing gum”, ha detto – per indicare la volontà di accompagnare questa fermezza con la mano tesa, a partire dal rinnovo del trattato Start. Si tratta di una posizione per molti aspetti di maggior apertura rispetto a quella dell’amministrazione Trump. A dimostrazione di quanto complesse continuino a essere le relazioni tra gli Stati Uniti e la Russia.

Il Giornale di Brescia, 18 marzo 2021

Il primo, grande successo di Biden

È il primo grande successo legislativo per Joe Biden. E non è un successo da poco. Un piano straordinario di quasi 2mila miliardi di dollari per stimolare l’econonomia, accelerare la risposta alla pandemia e rilanciare la lotta alla povertà e il sostegno al ceto medio. Un programma dalle dimensioni straordinarie – stiamo parlando di una cifra equivalente a quasi il 10% del PIL statunitense del 2020 – che potrebbe avere effetti, anche politici ed elettorali, di lungo periodo. Inevitabile che dentro un piano di questa portata non manchino demagogia e soddisfacimento d’interessi particolari, dai contributi di 1400 dollari a persone che raggiungono anche famiglie e individidui con redditi non bassi ai trasferimenti a Stati e municipalità che non hanno visto il loro gettito toccato da quest’ultima crisi. E però tanti, tantissimi di questi 1900 miliardi di dollari andranno a chi ne ha più bisogno o a quei segmenti di reddito maggiormente colpiti negli ultimi decenni dai processi d’integrazione globale, dalla crisi del 2008 e da quel che ne è conseguito. Vi è un investimento forte nei sussidi di disoccupazione; un finanziamento massiccio sulla sanità che di fatto rilancia e rafforza la riforma di Obama che Trump e i repubblicani hanno vanamente cercato di affondare (e la cui popolarità è cresciuta negli anni); detrazioni fiscali per i figli; aiuti per pagare affitti e mutui; sostegni a studenti indebitati e pensionati. Non è stato invece incluso un aumento del salario minimo, come inizialmente previsto, ma solo per ragioni procedurali in quanto il regolamento del Senato non lo ha permesso.

Le prime stime indicano che a beneficiarne primariamente saranno famiglie e individui a redditi bassi o medio-bassi. Quelli che guadagnano tra i 50 e i 90mila dollari annui potrebbero vedere il loro reddito netto crescere addirittura del 5/6%. Ed è su questo che l’intreccio tra obiettivi politici e finalità economiche si manifesta con più chiarezza. Vi è l’evidente volontà di stimolare l’economia, se necessario anche surriscaldandola: per rispondere al combinato disposto di emergenza sanitaria e crisi economica; perchè lo spauracchio dell’inflazione, brandito da alcuni critici, non sembra ancora incutere timore; e perché la redistribuzione a cui il programma ambisce abbisogna di una crescita impetuosa per potersi realizzare e consolidare. Ma si vuole anche ottenere un tornaconto politico ed elettorale. Ridurre le diseguaglianze e offrire nuove forme di protezione sociale vuol dire erodere le fondamenta di quelle pulsioni anti-sistema e, anche, anti-democratiche sulle quali ha potuto capitalizzare Trump. E vuol dire soddisfare una richiesta, politicamente trasversale se non addirittura bipartisan, costruendo un consenso utile all’amministrazione e ai democratici in prospettiva del voto di mid-term del 2022. Il piano non ha ottenuto un singolo voto repubblicano, alla Camera o al Senato; ma secondo tutti i sondaggi è straordinariamente popolare nel paese, inclusa una maggioranza degli elettori repubblicani.

Il resto del mondo, infine, non può che osservare con interesse quanto sta accadendo a Washington. In un anno gli Usa hanno approvato tre piani economici di risposta al Covid, per un totale di circa 5miliardi di dollari, quasi un quarto del PIL del paese. Tutti i parametri relativi a deficit e debito sembrano essere saltati. I riverberi globali – positivi o negativi – saranno inevitabili, come sempre nel caso degli Usa. Un aumento dell’inflazione difficilmente risulterebbe contenibile dentro i confini statunitensi. Al contempo, però, la ripresa degli Usa e, soprattutto, quella dei loro consumi non possono che stimolare una crescita globale della quale beneficerebbero tante economie, inclusa quella italiana, per le quali il mercato statunitense continua a essere importante e talora decisivo.

Il Giornale di Brescia, 12 marzo 2021

NEL MENTRE, “ERA MEGLIO TRUMP” …

Dalla commissione per i rifugiati dell’ONU giungono parole di forte sostegno al piano di Biden di alzare la quota di rifugiati ammessi negli Usa, portandola a 125mila persone all’anno (dalle 12mila di Trump), senza includere quelli che fanno richiesta di asilo o i rifugiati al confine con il Messico.

Nel mentre, Biden mette sul tavolo un piano ambizioso per regolarizzare gli 11/12 milioni di immigrati illegali negli Usa, partendo ovviamente dai dreamers.

Nel mentre, Biden non solo ha riportato gli Usa dentro gli accordi di Parigi, ma avanza proposte di ambiziosa revisione di quegli accordi.

Nel mentre gli Usa sono rientrati anche nella Organizzazione Mondiale della Sanità e hanno pagato i contributi che erano stati sospesi (gli Usa sono per distacco il principale finanziatore dell’OMS).

Nel mentre è stato annunciato che gli Usa rientreranno nell’Unesco.

Nel mentre, Biden ha cancellato i finanziamenti stanziati per la costruzione del famoso muro con il Messico.

Nel mentre, Biden non ha ancora chiamato Erdogan e a quanto pare lo sta deliberatamente tenendo sulla graticola (questa però è meno certa delle altre e rimangono molti punti interrogativi)

Nel mentre l’amministrazione Biden ha abbandonato la “Mexico City Policy”, reintrodotta da Trump, che limitava grandemente i  finanziamenti federali a NGOs statunitensi che offrono consulenze e assistenza sull’aborto

Nel mentre, Biden – prima del previsto – ha annunciato la volontà di tornare all’accordo sul nucleare iraniano, nonostante la feroce ostilità dei repubblicani e di pezzi non marginali dell’opinione pubblica (secondo tutti i sondaggi, l’Iran – assieme alla Corea – è lo stato di cui gli americani hanno l’opinione più negativa)

Nel mentre, l’amministrazione Biden ha congelato gli aiuti militari usati da Arabia Saudita e EAU nell’orribile macello yemenita, ha nominato un inviato speciale in Yemen, ha rimosso gli Houti dalla lista dei gruppi terroristici stranieri, e ha reso pubblico il rapporto Khashoggi.

Nel mentre, l’amministrazione Biden ha lanciato un piano di 4 miliardi di dollari per il Centro America

E tanti altri “nel mentre”

E sì, infine, Biden ha anche autorizzato un’azione militare contro una milizia iraniana al confine tra Siria e Iraq che nelle settimane precedenti aveva lanciato vari attacchi contro personale statunitense, uccidendo un contractor filippino e ferendo vari cittadini statunitensi. Azione problematica per varie ragioni e facilmente spiegabile per altre (a partire dal fatto che è banalmente propedeutica alla riapertura del dialogo con Tehrean, e serve a ottenere copertura politica dentro gli Usa). E azione che pare avere scatenato gli amici facebook dell’“era meglio Trump che almeno non faceva le guerre”. Amici che talora hanno pure l’ardire di proclamarsi di sinistra …. (e che talora s’intrecciano e sovrappongono con i geopolitici essenzialisti, quelli che mica si fanno fregare dalle apparenze, e per  i quali in realtà nulla cambia mai…)

 

 

 

Tre ore e 19 minuti

La testimonianza del comandante della Guardia Nazionale di DC, William Walker, sui fatti del 6 gennaio di fronte alle commissioni affari governativi e homeland security del Senato è a dir poco incredibile. 3 ore e 19 minuti: questo è il tempo intercorso tra la richiesta, disperata (“frantic”), di aiuto del capo della polizia del Capitol, incapace di fronteggiare l’assalto dei manifestanti, e l’autorizzazione del Pentagono a Walker per muovere i suoi soldati a difesa del Capitol. Tre ore e 19 minuti, con la Guardia Nazionale distante poche centinaia di metri dal luogo dell’insurrezione: anzi, come ha testimoniato Walker, già “sugli autobus pronti a partire”. Guardia Nazionale che il giorno prima, ha testimoniato Walker, avrebbe ricevuto l’ordine “inusuale” di non muoversi in alcun modo senza la previa autorizzazione del segretario dell’Esercito.

I vertici del Pentagono  all’epoca dei fatti (vertici che erano stati decapitati nelle settimane precedenti) hanno offerto una difesa davvero debole: hanno contestato la tempistica indicata da Walker, ammettendo comunque un ritardo di quasi tre ore tra la richiesta di aiuto alla Guardia Nazionale e la sua autorizzazione (2 ore e 49 minuti) e imputandolo a un difetto di comunicazione; e hanno giustificato le restrizioni preventive poste alla mobilità della GN come imposte da esigenze di “optics”: di come l’opinione pubblica avrebbe potuto percepire la presenza di soldati attorno al Capitol. I due più alti in grado dell’Esercito che gestirono la situazione e imposero queste restrizioni (e non autorizzarono l’intervento immediato) sono i generali Walter Piatt e Charles Flynn. Il secondo, sì, fratello minore di Michael Flynn.