Qualcuno aveva pensato che Sanders potesse fare un “McConnell a McConnell” : con una manovra spregiudicata di filibustering al Senato, e approfittando dei tempi strettissimi del calendario congressuale (la legislatura termina il 3 gennaio), imporre al leader repubblicano l’aumento dei contributi straordinari anti-Covid dall’assegno di 600 dollari a persona per nucleo famigliare a uno di 2000 come invocato da Trump. I democratici hanno subito cercato di approfittare dell’opportunità approvando la misura alla Camera. Ma “fare un McConnell a McConnell” non è impresa semplice e il senatore del Kentucky sembra essere riuscito a rintuzzare anche quest’ultima offensiva. Di teatro, e di teatro in larga misura elettorale, si tratta. Il nuovo pacchetto di aiuti approvato in forma bipartisan da un Congresso che ha avuto due ore per leggere un testo negoziato dalle rispettive leadership, senza discussione in commissione o in aula, contiene non poca demagogia, a partire appunto dai 600 dollari. Cifra a cui avranno diritto percettori individuali di redditi fino a 75mila dollari; capifamiglia fino a 112,500; coppie con reddito cumulato fino a 150mila dollari; e cifra, che, sia a pure a scalare potra essere ottenuta anche da chi ha redditi più alti. Soglie che crescerebbero ancor di più laddove fosse approvato il piano democratico-sandersiano: una famiglia di 4 persone con reddito di 150mila dollari ne riceverebbe 8000 di bonus; che andrebbero, pur calanti, fino a redditi famigliari di 300mila dollari. Insomma c’è un problema evidente di equità, che si rischia di sussidiare chi male davvero non se la passa; c’è un problema di stimolo effettivo, che il rischio è quello di un moltiplicatore assai limitato, come sempre quando si aggiunge una piccola somma a redditi già alti/medio-alti. E ci sarebbe un problema di conti pubblici, che si aggiungono altre centinaia di miliardi di dollari a un deficit gà impazzito. Ci “sarebbe”, al condizionale, che in tempi di crisi come questi, forse ci si può fare meno attenzione e comunque i repubblicani, che tornano a invocare la responsabilità fiscale, su questo non hanno davvero un microgrammo di credibilità residua, visti i deficit accettati sotto Trump. E la demagogia repubblicana è ben visibile nell’evitare di mettere al voto la legge della Camera, permettendo ai due senatori della Georgia Loeffer e Perdue, in corsa per i ballottaggi del 5 gennaio, di fare i trumpiani, dichiararsi favorevoli ai 2mila dollari e non essere però chiamati a votare. La peggiore, di demagogia, è però ancora una volta quella di un Presidente che prima non fa nulla per settimane, poi si dichiara favorevole ai termini dell’accordo negoziato dal suo stesso segretario del Tesoro, poi gioca a fare il Presidente del Popolo e invoca i due mila dollari. Forse è la solita, totale inadeguatezza di Trump; forse una strategia finalizzata a consolidare il suo profilo anti-politico/anti-Washington, da sfruttarsi economicamente e, chissà, magari anche elettoralmente nei mesi e negli anni post-presidenziali.
Mesi e anni che serviranno a Trump per fare più soldi possibili con cui pagare spese legali, rintuzzare le tante indagini sul conto suo e della sua famiglia, pagare pesanti linee di credito in scadenza, saldare vertenze col fisco e fare, direttamente e indirettamente, attività politica. Ha fatto scalpore un ulteriore scontro tra Trump e Congresso in questi giorni (che Sanders ha appunto cercato di cavalcare unendo la cosa allo stimulus): quello sulla legge sul bilancio della Difesa (il National Defense Authorization Act, NDAA). Sul quale il Presidente ha posto il veto, annullato dal voto a maggioranza qualificata (2/3 dei votanti) della Camera a cui seguirà quello del Senato (primo caso in questa legislatura di un veto presidenziale che viene aggirato). È “un regalo a Cina e Russia”, ha denunciato Trump nell’annunciare il veto. Ma ad alimentare la sua opposizione sarebbero state sia la decisione – sostenuta dai vertici delle Forze Armate – di modificare il nome di basi dedicate a militari confederali/sudisti sia la domanda di abbinare il NDAA alla cancellazione di una legge del 1996 che protegge compagnie come Facebook, Twitter & co da possibili cause per i materiali pubblicati sui loro siti. E però c’è un terzo elemento del NDAA particolarmente indigesto a Trump: un provvedimento anti-corruzione che di fatto vieta la costituzione di “shell companies” anonime, utilizzate come strumenti di riciclaggio e attività illegali di vario tipo e facilitate dalla legislazione di alcuni stati, come il Delaware, che rende gli Usa, dopo le isole Cayman, il paese più permissivo in materia. Shell companies di cui i Trump hanno fatto e fanno largo uso, al punto che una è stata creata nel 2018 dal genero Jared Kushner per gestire una parte del fondo elettorale di Trump, fuori dallo scrutinio pubblico (e pagando lautamente i membri del suo Board, tra cui la nuora di Trump, Lara, nominata Presidente, e la nipote di Pence, sua Vice)
Un altro, eclatante esempio della monumentale e finanche ostentata corruzione di questa amministrazione e di questo Presidente. Che ci porta al terzo e ultimo punto: la transizione post-elettorale. Il mandato di Trump cesserà a mezzogiorno del 20 gennaio prossimo quando s’insedierà il nuovo Presidente Joe Biden (vincitore del Collegio elettorale, 306 a 232, e del voto popolare con circa 7 milioni (81 a 74), il 4.5%, di differenza; Di una vittoria piuttosto netta insomma si tratta). Vi è un ultimo passaggio, in teoria – a da legge/costituzione – puramente cerimoniale, il 6 gennaio al Senato. Quando il presidente della Camera Alta, ossia il vice-Presidente Mike Pence, sarà chiamato a notificare il voto del Collegio Elettorale del 14 dicembre scorso (il 306 a 232 di cui sopra, appunto), aprendo le buste con i risultati delle varie delegazioni statali. Da norma (Electoral Count Act del 1887) il risultato può essere contestato, e dibattuto, laddove almeno almeno un membro di ciascuna Camera lo richiedesse. E vi sono deputati e, oggi, senatori che hanno dichiarato procederanno a questa contestazione (tra cui il nuovo senatore dell’Alabama, ed ex leggendario coach delle squadre di football di Ol’Miss, Auburn e Cincinnati, Tommy Tuberville, quello che quando gli chiesero d’indicare i tre rami del governi, rispose “Camera, Senato ed Esecutivo” e che presentò la seconda guerra mondiale come una campagna “contro il socialismo”…). Ciò trasformerà quasi sicuramente questo passaggio rituale in un altro momento di scontro di questa interminabile transizione post-elettorale. Le possibilità di rovesciare l’esito del voto rimangono però pari allo zero, che dopo due ore di deliberazione ci vorrebbe il voto di entrambe le camere. Almeno che Pence – come invocano i trumpiani, assieme alla legge marziale e all’indizione di nuove elezioni – non abusi della sua funzione e cerchi d’invalidare il voto di alcune delegazioni e le sostituisca con quelle alternative, formate dai repubblicani, per la Georgia, il Michigan, l’Arizona, la Pennsylvania e il Wisconsin. Una richiesta formalizzata da alcuni membri repubblicani del Congresso che se accolta – di fatto si tratterebbe di un golpe – aprirebbe una crisi costituzionale e politica tanto straordinaria quanto inimmaginabile. Che anche solo la si contempli, che il Presidente in carica la caldeggi, che il Vice-Presidente non abbia ancora detto nulla al riguardo (comunicando solo che partirà per un viaggio all’estero poche ore dopo la fine della sessione), che alcuni deputati e senatori la appoggino ci dà la cifra una volta di più di cosa sia e sia stato il trumpismo e di quanto lungo e tortuoso sia il cammino per provarne gradualmente a uscirne. Soprattutto ci mostra cosa sarebbe potuto accadere se solo la vittoria di Biden fosse stata meno netta o se tanti politici e funzionari statali repubblicani non avessere dimostrato di avere la schiena assai più dritta di numerosi loro colleghi di partito a Washington.