Mario Del Pero

Generale

Lo sfregio

Non era inattesa: una possibile deriva violenta della mobilitazione contro l’elezione di Joe Biden. Appariva infatti solo una questione di tempo il passaggio dalla violenza verbale a quella fisica e l’ulteriore escalation dell’attacco alla democrazia che ha in una certa misura contraddistinto il quadriennio trumpiano. Ma nessuno poteva immaginare prendesse le forme, al contempo grottesche e drammatiche, dell’assalto al Campidoglio: dell’irruzione nel cuore, simbolico e operativo, della democrazia americana. Uno sfregio nel quale la violenza è stata grazie al cielo limitata e contenuta, ma la cui forza simbolica, e quindi politica, non può in alcun modo essere minimizzata. Il Capitol, sede del Congresso e di varie altre istituzione federali, è – o almeno era fino a ieri – luogo sacro e inviolabile. Tempio del confronto politico e del momento deliberativo; simbolo – anche nelle sue banali fattezze neoclassiche poi riprodotte in tanti campidogli statali – delle virtù repubblicane di governo competente, moderato e rispettoso. Virtù irrise e sfregiate, queste; assieme a una democrazia che sta sì reggendo l’urto, ma che esce prostrata e ancor più in sofferenza da questa interminabile transizione post-elettorale.

Trump è il responsabile primario. Il piromane che ha acceso la miccia in una situazione di suo incendiaria; che ha avvelenato i pozzi con la sua retorica sovraccarica e divisiva e con verità alternative – ultima in ordine di tempo quella delle frodi elettorali e della “vittoria rubata” – che hanno iniettato ulteriore tossicità in un corpo già malato e in sofferenza. Ma della evidente fatica della democrazia statunitense, il Presidente uscente è per molti aspetti il prodotto più che la causa. Il prodotto cioè di una polarizzazione acuta, che genera una delegittimazione reciproca tra le due parti e rende il paese sempre meno governabile; di una radicalizzazione ideologica particolarmente marcata nel caso dei repubblicani; di una spregiudicatezza che induce non di rado a giocare col fuoco delle teorie cospirative e delle degenerazioni culturali e civiche che esse producono; di una incapacità, quella sì spesso bipartisan, di dare risposta efficaci alle sofferenze reali di una parte del paese.

Rimettere assieme i cocci sarà ora immensamente complicato. Difficile sarà governare per Biden, che se anche i democratici controllano entrambe le Camere, si tratta di maggioranze stringatissime per un partito di suo diviso che dovrà poi confrontarsi con una controparte che è andata molte bene alle elezioni del novembre scorso e ha nelle sue mani molti governi statali. Immensamente complicato sarà per i repubblicani affrancarsi finalmente da Trump e dal trumpismo; da un Presidente e una retorica invariabilmente inadeguati e, come abbiamo visto ieri, a costante rischio di deriva eversiva. È una condizione indispensabile, questa, per la democrazia americana: la capacità dei repubblicani di ripulirsi delle scorie trumpiane, abbandonando il suo nazionalismo razziale, la sua visione puramente strumentale della democrazia, la sua volgarità e violenza verbale. Abbandonare cioè un Presidente tossico e divisivo. E però cavalcando malcontento legittimo e pregiudizi antichi, sofferenze reali e razzismo ancora diffuso, quella retorica e quel messaggio hanno fatto breccia; sono stati fatti propri da milioni di elettori repubblicani che, sondaggi alla mano, nemmeno oggi sembrano volere abbandonare il Presidente uscente. I pericoli sono evidenti. Tutte le democrazie sono per definizione parziali, incompiute e, anche, reversibili. Quella americana ha retto sì l’urto di quattro anni di Trump e, ancor più, di quel che è accaduto dopo la vittoria di Biden il 3 novembre scorso. Ma si è scoperta esposta, fragile e vulnerabile. E lo sfregio di ieri a una delle sue istituziono simbolo rappresenta, nel migliore dei casi, un monito tanto forte quanto spaventevole.

Il Giornale di Brescia, 8 gennaio 2021

Tempo scaduto

Immaginavamo – nella lunga coda post-elettorale – delle possibili violenze, degli scontri scontri e tensioni. Anche dei morti, ahimè. Che in fondo si veniva da mesi in cui il combinato disposto di pandemia, questione razziale, proteste e crisi economica aveva creato uno stato di altissima tensione: un contesto infiammabile al quale il piromane in chief – con il suo analfabetismo istituzionale, la sua violenza verbale, il suo vocabolario primitivo, la sua spregiudicatezza – avrebbe potuto appiccare in ogni momento il fuoco. Abbiamo avuto invece il consueto delirio cospirativo e il sedimentarsi, preso una parte ampia e probabilmente maggioritaria dell’elettorato di Trump (tra il 60 e l’80% degli elettori repubblicani, secondo vari sondaggi) della leggenda delle frodi elettorali, della vittoria rubata, di Dominion & co..
Cavalcata per ignoranza e disonestà da Trump, dai suoi familiari e dai tanti sicofanti di cui si circonda. E un’onda difficile da bloccare, che quando anche Fox news ha provato a portare un minimo di ragionevolezza nella discussione è stata subito scavalcata da altri spregiudicati media nel loro dare voce alle follie trumpiane. Anche perché la vittoria rubata segue (e consegue a) Qanon, il certificato di nascita di Obama e i mille altri deliri cospirativi che hanno incubato e prodotto il trumpismo; una crisi della democrazia e una delegittimazione delle istituzioni che aiutano a spiegare come una figura impreparata, inadeguata, finanche clownesca come Trump sia potuta giungere alla Casa Bianca.
Ci aspettavamo tensioni e violenze e ci siamo ritrovati invece con un’insurrezione, sia pure da operetta. Con pagliacci travestiti da unni e bandiere confederali come se grandinasse che sfregiavano il tempio della democrazia americana, quel Capitol che – ricopiato in tante repliche statali e come mille altri edifici federali – nelle sue forme banalmente neoclassiche ambisce a incarnare e rappresentare la virtù repubblicana: l’antitesi del vandalismo alla Gotham City cui abbiamo assistito ieri. Uno sfregio, si diceva: della democrazia, delle regole, delle istituzioni. Apice e apoteosi dello sfregio quotidiano che Trump ha fatto di democrazia, regole e istituzioni: con i suoi tweet spesso sgrammaticati, volgari e violenti (storici preparatevi, saranno le vostre fonti primarie!); il suo nepotismo; la corruzione incontenibile; una retorica binaria e sempliciona che inevitabilmente acuiva la polarizzazione e la contrapposizione. Che nel corto-circuito perenne di questi quattro anni, dal cuore delle istituzioni federali e dall’unico pulpito che incarna e sussume il paese nella sua interezza, picconava le istituzioni ed esasperava le divisioni dell’America.
Che potesse finire male lo immaginavamo e preconizzavamo in molti. Lo sfregio cui abbiamo assistito ieri è difficile da credere e raccontare; che Trump ne sia il responsabile, mi pare, davvero incontestabile. E intollerabile il senso d’impunità che informa parole e azioni del Presidente e dei suoi sostenitori. Del tutto condivisibili sono quindi le richieste che oggi vengono da più parti di attivare il 25° emendamento, sollevarlo dall’incarico e fare in modo che Pence gestisca questa ultima fase della transizione, che la democrazia statunitense – la cui crisi non mi pare possa in alcun modo essere minimizzata – non può davvero permettersi altre due settimane con quest’uomo alla Casa Bianca.

Il PUNTO (E UN GRAZIE PER I TANTI AUGURI CHE STANNO GIUNGENDO)

 

  • La telefonata di Trump credo l’abbiamo ascoltata tutti. La farsa di un uomo cui manca l’abc della grammatica istituzionale o della cultura costituzionale; il dramma di una democrazia tanto inquinata da dargli le chiavi della Casa Bianca e, oggi, da avere un 40/45% del paese pronto a seguirlo senza se e senza ma; l’indecenza, infine, di chi riesce ancora a giustificarlo o difenderlo. Lo scrissi anche dopo il caso Floyd e la reazione scomposta di un Presidente che citava alla lettera slogan segregazionisti, brandiva bibbie e flirtava con movimenti radicali del suprematismo bianco: per quanto mi riguarda chi difende/apprezza tutto ciò si colloca ben al di là della linea elementare della decenza. Period

 

  • Domani si vota per i due ballottaggi in Georgia. Che saranno decisivi nel determinare la maggioranza al Senato. Con la quale i democratici potrebbero dettare il calendario dei lavori e l’agenda legislativa del prossimo biennio, ma difficilmente imporre un programma di riforme ambizioso e radicale, che di maggioranza fragilissima si tratterebbe, la controparte – come abbiamo visto anche di recente – sul merito delle politiche, dalla fiscalità alla deregulation – tende a essere molto compatta e di democratici molto conservatori (da Manchin a Tester allo stesso Warner) ne sono rimasti ancora diversi. Detto questo, la Georgia diventa in una certa misura paradigma ed esempio ulteriore di una polarizzazione – geografica, sociale, demografica, culturale – nella quale decisiva è la capacità di mobilitare appieno il proprio elettorato più che di attrarre quello della controparte o di convincere i pochi indecisi. Polarizzazione acuita ovviamente da una frattura – semplificando molto: aree urbane vs. aree rurali – che si manifesta in forma quasi caricaturale, con il conglomerato metropolitano di Atlanta che da solo fa quasi il 60% degli abitanti dello stato (e il 70% o più del suo PIL….) e con le sue tante imprese globalizzate (Coca Cola, CNN, Delta, UPS e altre) che la globalizzazione per molti aspetti la cavalcano e non la subiscono, a differenza del resto dello Stato

 

  • Che la situazione al Congresso sarà molto, molto complicata ce lo ricorda il voto di ieri che ha confermato Nancy Pelosi come speaker della Camera (ultimo biennio, ha promesso, e forse è l’unica in grado di tenere unito il litigioso caucus democratico; certo che a 80 anni suonati non è un bellissimo segnale). Voto risicatissimo (216 a 209), con alcune defezioni democratiche in una Camera dove vi sarà la maggioranza più esigua degli ultimi vent’anni (i democratici hanno 222 rappresentanti su 435, avendo perso una decina di seggi alle ultime elezioni). E dove mantenere compatta la maggioranza sarà molto complicato, a maggior ragione con questo Senato

 

  • Tra due giorni il Senato certificherà la vittoria di Biden, con Presidente della Camera Alta – il VP Mike Pence – chiamato ad aprire le buste con i risultati delle delegazioni statali del Collegio Elettorale. Una formalità e un ruolo puramente cerimoniale questo; che nell’ultimo atto della tentata eversione post-elezione verrà trasformato in un’altra contestazione del voto. Una dozzina di senatori repubblicani è pronto a votare contro questa validazione; l’obiezione congiunta di un membro ciascuno delle due Camere imporrà un dibattimento; addirittura si è cercato di aprire un varco affinché Pence potesse non validare il voto e sostituire le delegazioni di Georgia, Arizona, Pennsylvania, Michigan e Wisconsin con altre pro-Trump. Pence che ha dichiarato di sostenere la linea dei senatori contrari alla certificazione. Mossa elettorale in prospettiva 2024, quella del VP e di tanti senatori, a partire da Ted Cruz, consapevoli che una maggioranza dell’elettorato repubblicano vuole credere alla leggenda della vittoria rubata e che nei mesi a venire quello diventerà il test di ortodossia per qualsiasi repubblicano voglia ambire a una carica elettiva. E ulteriore coda tossica di questo terrificante quadriennio

 

  • Anni, questi di Trump alla Casa Bianca, caratterizzati da livelli di corruzione senza precedenti. Quasi ostentati assieme alla grottesca pacchianeria del Trump-world, da Mar-a-Lago in giù, alle clientele, al parossistico familismo con figli e generi imbarcati in questo sacco di Washington. Di fronte a questa corruzione, quella pregressa ovviamente impallidisce. Eppure rimane. E rimangono i problemi delle porte girevoli washingtoniane, dei conflitti d’interesse, di un senso d’impunità che con Trump forse si è ancor più consolidato. Realtà in larga misura bipartisan, come evidenziano le consulenza riccamente retribuite di tanti membri dell’amministrazione Biden, a partire da Yellen, Austin e Blinken, che negli anni di Trump male non se la sono passata affatto, in attesa di fare un nuovo giro al governo, rafforzare ancora di più il loro profilo e le le loro relazioni, per monetizzarci sopra una volta terminata questa esperienza. Un problema di etica politica monumentale, che alimenta quel disagio e quel malessere su cui possono poi ovviamente capitalizzare i demagoghi alla Trump

IL PUNTO (E GLI AUGURI DI FINE ANNO)

Qualcuno aveva pensato che Sanders potesse fare un “McConnell  a McConnell” : con una manovra spregiudicata di filibustering al Senato, e approfittando dei tempi strettissimi del calendario congressuale (la legislatura termina il 3 gennaio), imporre al leader repubblicano l’aumento dei contributi straordinari anti-Covid dall’assegno di 600 dollari a persona per nucleo famigliare a uno di 2000 come invocato da Trump. I democratici hanno subito cercato di approfittare dell’opportunità approvando la misura alla Camera. Ma “fare un McConnell a McConnell” non è impresa semplice e il senatore del Kentucky sembra essere riuscito a rintuzzare anche quest’ultima offensiva. Di teatro, e di teatro in larga misura elettorale, si tratta. Il nuovo pacchetto di aiuti approvato in forma bipartisan da un Congresso che ha avuto due ore per leggere un testo negoziato dalle rispettive leadership, senza discussione in commissione o in aula, contiene non poca demagogia, a partire appunto dai 600 dollari. Cifra a cui avranno diritto percettori individuali di redditi fino a 75mila dollari; capifamiglia fino a 112,500; coppie con reddito cumulato fino a 150mila dollari; e cifra, che, sia a pure a scalare potra essere ottenuta anche da chi ha redditi più alti. Soglie che crescerebbero ancor di più laddove fosse approvato il piano democratico-sandersiano: una famiglia di 4 persone con reddito di 150mila dollari ne riceverebbe 8000 di bonus; che andrebbero, pur calanti, fino a redditi famigliari di 300mila dollari. Insomma c’è un problema evidente di equità, che si rischia di sussidiare chi male davvero non se la passa; c’è un problema di stimolo effettivo, che il rischio è quello di un moltiplicatore assai limitato, come sempre quando si aggiunge una piccola somma a redditi già alti/medio-alti. E ci sarebbe un problema di conti pubblici, che si aggiungono altre centinaia di miliardi di dollari a un deficit gà impazzito. Ci “sarebbe”, al condizionale, che in tempi di crisi come questi, forse ci si può fare meno attenzione e comunque i repubblicani, che tornano a invocare la responsabilità fiscale, su questo non hanno davvero un microgrammo di credibilità residua, visti i deficit accettati sotto Trump. E la demagogia repubblicana è ben visibile nell’evitare di mettere al voto la legge della Camera, permettendo ai due senatori della Georgia Loeffer e Perdue, in corsa per i ballottaggi del 5 gennaio, di fare i trumpiani, dichiararsi favorevoli ai 2mila dollari e non essere però chiamati a votare. La peggiore, di demagogia, è però ancora una volta quella di un Presidente che prima non fa nulla per settimane, poi si dichiara favorevole ai termini dell’accordo negoziato dal suo stesso segretario del Tesoro, poi gioca a fare il Presidente del Popolo e invoca i due mila dollari. Forse è la solita, totale inadeguatezza di Trump; forse una strategia finalizzata a consolidare il suo profilo anti-politico/anti-Washington, da sfruttarsi economicamente e, chissà, magari anche elettoralmente nei mesi e negli anni post-presidenziali.

Mesi e anni che serviranno a Trump per fare più soldi possibili con cui pagare spese legali, rintuzzare le tante indagini sul conto suo e della sua famiglia, pagare pesanti linee di credito in scadenza, saldare vertenze col fisco e fare, direttamente e indirettamente, attività politica. Ha fatto scalpore un ulteriore scontro tra Trump e Congresso in questi giorni (che Sanders ha appunto cercato di cavalcare unendo la cosa allo stimulus): quello sulla legge sul bilancio della Difesa (il National Defense Authorization Act, NDAA). Sul quale il Presidente ha posto il veto, annullato dal voto a maggioranza qualificata (2/3 dei votanti) della Camera a cui seguirà quello del Senato (primo caso in questa legislatura di un veto presidenziale che viene aggirato). È “un regalo a Cina e Russia”, ha denunciato Trump nell’annunciare il veto. Ma ad alimentare la sua opposizione sarebbero state sia la decisione – sostenuta dai vertici delle Forze Armate – di modificare il nome di basi dedicate a militari confederali/sudisti sia la domanda di abbinare il NDAA alla cancellazione di una legge del 1996 che protegge compagnie come Facebook, Twitter & co da possibili cause per i materiali pubblicati sui loro siti. E però c’è un terzo elemento del NDAA particolarmente indigesto a Trump: un provvedimento anti-corruzione che di fatto vieta la costituzione di “shell companies” anonime, utilizzate come strumenti di riciclaggio e attività illegali di vario tipo e facilitate dalla legislazione di alcuni stati, come il Delaware, che rende gli Usa, dopo le isole Cayman, il paese più permissivo in materia. Shell companies di cui i Trump hanno fatto e fanno largo uso, al punto che una è stata creata nel 2018 dal genero Jared Kushner per gestire una parte del fondo elettorale di Trump, fuori dallo scrutinio pubblico (e pagando lautamente i membri del suo Board, tra cui la nuora di Trump, Lara, nominata Presidente, e la nipote di Pence, sua Vice)

Un altro, eclatante esempio della monumentale e finanche ostentata corruzione di questa amministrazione e di questo Presidente. Che ci porta al terzo e ultimo punto: la transizione post-elettorale. Il mandato di Trump cesserà a mezzogiorno del 20 gennaio prossimo quando s’insedierà il nuovo Presidente Joe Biden (vincitore del Collegio elettorale, 306 a 232, e del voto popolare con circa 7 milioni (81 a 74), il 4.5%, di differenza; Di una vittoria piuttosto netta insomma si tratta). Vi è un ultimo passaggio, in teoria – a da legge/costituzione – puramente cerimoniale, il 6 gennaio al Senato. Quando il presidente della Camera Alta, ossia il vice-Presidente Mike Pence, sarà chiamato a notificare il voto del Collegio Elettorale del 14 dicembre scorso (il 306 a 232 di cui sopra, appunto), aprendo le buste con i risultati delle varie delegazioni statali. Da norma (Electoral Count Act del 1887) il risultato può essere contestato, e dibattuto, laddove almeno almeno un membro di ciascuna Camera lo richiedesse. E vi sono deputati e, oggi, senatori che hanno dichiarato procederanno a questa contestazione (tra cui il nuovo senatore dell’Alabama, ed ex leggendario coach delle squadre di football di Ol’Miss, Auburn e Cincinnati, Tommy Tuberville, quello che quando gli chiesero d’indicare i tre rami del governi, rispose “Camera, Senato ed Esecutivo” e che presentò la seconda guerra mondiale come una campagna “contro il socialismo”…). Ciò trasformerà quasi sicuramente questo passaggio rituale in un altro momento di scontro di questa interminabile transizione post-elettorale. Le possibilità di rovesciare l’esito del voto rimangono però pari allo zero, che dopo due ore di deliberazione ci vorrebbe il voto di entrambe le camere. Almeno che Pence – come invocano i trumpiani, assieme alla legge marziale e all’indizione di nuove elezioni – non abusi della sua funzione e cerchi d’invalidare il voto di alcune delegazioni e le sostituisca con quelle alternative, formate dai repubblicani, per la Georgia, il Michigan, l’Arizona, la Pennsylvania e il Wisconsin. Una richiesta formalizzata da alcuni membri repubblicani del Congresso che se accolta – di fatto si tratterebbe di un golpe – aprirebbe una crisi costituzionale e politica tanto straordinaria quanto inimmaginabile. Che anche solo la si contempli, che il Presidente in carica la caldeggi, che il Vice-Presidente non abbia ancora detto nulla al riguardo (comunicando solo che partirà per un viaggio all’estero poche ore dopo la fine della sessione), che alcuni deputati e senatori la appoggino ci dà la cifra una volta di più di cosa sia e sia stato il trumpismo e di quanto lungo e tortuoso sia il cammino per provarne gradualmente a uscirne. Soprattutto ci mostra cosa sarebbe potuto accadere se solo la vittoria di Biden fosse stata meno netta o se tanti politici e funzionari statali repubblicani non avessere dimostrato di avere la schiena assai più dritta di numerosi loro colleghi di partito a Washington.

CORRUZIONE, VIOLENZA, XENOFOBIA: I PARDON DI DONALD TRUMP E IL PEGGIO CHE NON CONOSCE MAI LIMITI

Sorpresi che Trump abbia concesso la grazia addirittura a Stone e Manafort, figure pubbliche tra le più corrotte che la storia statunitense recente ricordi? Ma la corruzione ha rappresentato in fondo un tratto distintivo dell’amministrazione Trump, con la figlia Ivanka che mentre il padre tuonava contro Pechino registrava trademarks come piovesse in Cina, conflitti d’interesse a destra e manca, il governo statunitense che pagava tariffe da alta stagione per i suoi dipendenti costretti a seguire Trump nelle sue dimore private dove conduceva affari di stato. E con un Presidente – in questo pienamente coerente – che in fondo la corruzione prometteva non di combattere ma di saper sfruttare e gestire meglio dei suoi predecessori, grazie alla sua consolidata esperienza nel campo.
Sorpresi che Trump abbia concesso la grazia ai contractors di Blackwater che spararono all’impazzata sui civili a Baghdad, uccidendone 14, in quello che in un’indagine della FBI definì una sorta di My Lai iracheno, che i vertici delle forze armate statunitensi denunciarono con forza e per cui la stessa proprietà di Blackwater chiese una punizione esemplare? Ma iper-nazionalismo e xeno/islamo-fobia sono a loro volta stati tratti distintivi del discorso trumpiano (e, in fondo, di tutta la biografia di Trum), tanto che già in passato il Presidente concesse il pardon a militarsi condannati per orribili crimini di guerra. Anche perché questi nazionalismi e xenofobia si sono sempre accompagnati in fondo a una giustificazione, se non a una celebrazione, della violenza e della “retribution” come mostrano anche i nuovi record di esecuzioni federali di questi giorni.
Siamo agli sgoccioli di una Presidenza che una cosa banale, banale ci ha insegnato e, nel post voto, si è premurata quotidianamente di ricordarci: a non ritenere che con Trump vi possa essere mai un limite al peggio.

SUI MIASMI TRUMPIANI

Degli amici mi hanno rimandato a un paio di pagine di trumpiani de noantri. Non si sa se facciano più pena o più ridere; ma sono espressioni evidenti di un disagio e di un degrado. Condivisi da alcune migliaia di persone, che poche non sono, ci mancherebbe. Ma da non prendersi troppo sul serio, che di squinternati in giro ce ne sono non pochi e i social hanno dato loro una visibilità e una tribuna che altrimenti non avrebbero. Il problema non sono loro, ma chi per quattro anni ha dato bordone a Trump o addirittura espresso apprezzamento per una figura tanto improponibile e inadeguata. Si badi bene – e non mi stancherò mai di ripeterlo – non alle sue politiche, nel bene e nel male molto più convenzionali e ortodossamente repubblicane di quanto non si creda. Ma a un personaggio volgare, corrotto, impreparato, istituzionalmente analfabeta e di conseguenza – come ben abbiamo visto in queste ultime settimane – istintivamente eversivo, ché l’abc della democrazia gli è ignoto e la Costituzione ha mostrato in innumerevoli  occasioni di non averla mai neanche aperta.

Studieremo in futuro come fonti primarie tweet deliranti, farciti di offese quotidiane, grossolanità assortite, deliri complottisti da Qanon in giù. Il pulpito presidenziale ha, negli Usa più che altrove, una fondamentale funzione pedagogica. E la pedagogia trumpiana è stata invariabilmente tossica. Solo il tempo ci dirà se le sue scorie siano smaltibili o almeno stoccabili. Sappiamo però che l’Italia, forse per una sua maggiore fragilità democratica, è stata più esposta a questi miasmi; che – sondaggi alla mano – pur in un contesto di alta impopolarità di Trump, da noi il tasso di disapprovazione nei suoi confronti è stato decisamente più basso che nella gran parte di Europa (soprattutto prima della pandemia). Che l’effetto imitativo e legittimante del trumpismo si è sentito con maggior forza. E la responsabilità è anche di chi – sedicenti esperti, politici e giornalisti – a prescindere dai loro convincimenti (e quindi dal legittimo apprezzamento verso determinate politiche trumpiane) – ha ben pensato, per ignavia, incompetenza od opportunismo, di normalizzare ciò che normale non è, e normalizzabile davvero non dovrebbe essere

I tanti “se” di una democrazia

Il Collegio elettorale certifica l’esito del voto e la vittoria di Joe Biden – che nel tempo si è fatta più netta e incontestabile di quanto non sembrasse inizialmente (più di 7 milioni nel voto popolare, quasi il 5% di differenza, che nel contesto polarizzato odierno poco davvero non è; 306 a 232 nel collegio elettorale). I repubblicani – lo abbiamo detto e scritto mille volte – vanno molto bene nelle tante elezioni contestuali a quelle presidenziali, in particolare nel voto statale. Ma Trump perde senza se e senza ma. Eppure ci sono mille “se” da ponderare; mille interrogativi su quel che sarebbe potuto essere e grazie al cielo non è stato. Se la vittoria fosse stata meno netta sarebbero riuscite le autorità statali competenti, quando dello stesso partito del Presidente, a resistere alle sue pressioni? E se alcune di queste autorità, penso al segretario di Stato della Georgia o ai presidente delle camere del Michigan, avessero pensato di giocare con il fuoco e seguire il Presidente? Se i riconteggi (legittimi e inevitabili in alcuni stati), pur confermando l’esito del voto, avessero rivelato discrepanze ed errori più marcati? Se si fosse trovato qualche giudice solo un po’ meno serio o più accondiscendente (o più corrompibile)?

La democrazia americana da questa prova pare uscire al tempo stesso più forte e più sofferente. Mostra la sua resilienza di fronte a quella che, a tutti gli effetti, può essere considerato un’azione eversiva atta ad annullare il risultato di libere elezioni; un tentato colpo di stato, insomma (non credo si possa qualificare altrimenti non la richiesta di riconteggi, non i ricorsi alle Corti, ma le pressioni di Trump su funzionari e politici statali per annullare l’esito del voto e rimandare al Congresso dello Stato la nomina dei grandi elettori). Ma vede, questa democrazia, iniettato nel suo corpaccione già provato e anziano una dose ulteriore di veleno, destinato a sedimentarsi e rimanere in circolo nelle settimane e nei mesi a venire, come ci mostrano diversi sondaggi che – pur con dati differenti – ci dicono che larghe maggioranze di elettori repubblicani credono ormai al mito della “vittoria rubata”. Mito che Trump e suoi alimenteranno e cavalcheranno, non ultimo per capitalizzarci sopra; e che diventerà il nuovo test di ortodossia a cui dovranno sottoporsi tutti i repubblicani che ambiscono a una carica elettiva. E che determina tutti i “se” possibili con i quali la democrazia americana sarà chiamata a fare i conti.

DI EARMARKS E SENATORI-PRESIDENTI

Ritorna un Senatore alla Casa Bianca. Uno vero, che c’è stato per 36 anni, ha proposto e firmato innumerevoli disegni di legge, è stato membro di, e ha presieduto, commissioni pesanti, come quelle Giustizia e Affari Essteri. Non come Obama che visse i suoi 4 anni alla Camera Alta come una sorta di rapido interludio verso la Presidenza e che non si distinse né per coraggio né per attivismo. Il primo dai tempi di Lyndon Johnson e dopo una infinita serie di ex governatori della Sunbelt (Carter, Reagan, Bush I, Clinton, Bush II). Qualcuno che conosce bene le mille intricacies del processo legislativo, i baratti e compromessi che questo impone, la spregiudicatezza che esso non di rado richiede (e d’altronde LBJ – “Master of the Senate” in quello che è forse il volume più bello della magistrale biografia di Caro e in attesa del vol. 5 – fu Presidente sotto il quale il Congresso approvò il programma più ampio e progressista di riforme del dopo Seconda Guerra Mondiale). Ritorna alla Casa Bianca un Senatore dopo 4 anni di un Presidente che non conosceva, né ha mai manifestato il benché minimo interesse per, l’a-b-c delle procedure legislative (e che in più di un’occasione ha dimostrato di non aver mai neanche sbirciato la Costituzione).

La paralisi legislativa e il governo esecutivo-amministrativo che ne è conseguito (ordini esecutivi + indicazioni attuative alle agenzie federali) sono il frutto, quello lo sappiamo, della polarizzazione estrema e del suo impattivo sul Congresso. Ma forse anche di questa scarsa capacità degli ultimi presidenti di indirizzarlo, gestirlo e guidarlo il processo legislativo. E magari anche degli effetti inattesi di campagne etiche (tema, forse unico, su cui Obama si distinse da Senatore), tutte centrate sul rendere meno semplici quei tanti meccanismi corruttivi che operavano al Congresso, con mille effetti deteriori – ci mancherebbe – ma spesso lubrificando l’iter legislativo  Il famoso pork and barrel, insomma o – per usare un termine meno dispregiativo, gli “earmarks”, annessi a una determinata legge (una spesa, un beneficio fiscale, ecc) che favorivano uno specifico stato o distretto elettorale (aiutando così a ottenere il voto di senatori e rappresentanti). Earmarks sui quali ci sarebbe in teoria una moratoria da quasi dieci anni. Che proprio i democratici vorrebbero ora sollevare per cercare di uscire dallo stallo e rompere il gridlock, suscitando però le comprensibili obiezioni di molti che, appunto, ne ricordano i pesanti effetti corruttivi.

 

Targeted Killings

Ha fatto scalpore, e non poteva essere altrimenti, l’assassinio di Mohsen Fakhrizadeh lo scienziato che guidava il programma nucleare irania. Perché è quasi certo che dietro l’azione vi sia Israele; perché è inimmaginabile che non vi sia stato un avallo statunitense; perché il rischio di una risposta iraniana, e di un’escalation regionale, è elevatissimo; perché, infine, l’eliminazione mirata di uno scienziato pone seri problemi etici che si aggiungono ai tanti  – operativi, legali e, appunto, etici – della guerra dei droni che Usa, Israele e altri conducono ormai da tempo.

Ed è proprio da questo ultimo punto che è utile partire per provare a riflettere su questa operazione, sulle ragioni che possono averla ispirata e sulle conseguenze possibili. Molti media statunitensi hanno paragonato Fakhrizadeh a J. Robert Oppenheimer, il leggendario fisico statunitense a capo della parte scientifica del progetto Manhattan che nella seconda guerra mondiale portò alla realizzazione della prima atomica. Parallelo improprio, questo, che ovviamente il 2020 non è il 1943 e lo sviluppo dell’atomica non dipende certo dal genio individuale o dalle intuizioni di scienziati visionari; ovvero parallelo appropriato, che oggi come allora per sviluppare l’atomica vi è bisogno di risorse, materie prime, conoscenze scientifiche e volontà politica. Che se allora l’atomica anglo-americana sarebbe stata prodotta anche senza Oppenheimer, oggi quella tutta ipotetica e futuribile iraniana potrà essere costruita anche senza Fakhrizadeh. Difficile immaginare che Netanyahu, Trump o Pompeo non lo sappiano. E che questo assassinio non sia quindi funzionale a obiettivi altri, ben altri, dal rallentamento del programma nucleare iraniano ovvero rifletta un approccio alle questioni mediorientali nel quale disegni strategici, assunti ideologici e convenienze politico-elettorali s’intrecciano inestricabilmente.

Il disegno strategico è evidentemente quello di alzare la soglia della tensione con Iran, auspicandone una risposta che leghi le mani alla futura amministrazione Biden e giustifichi l’ulteriore consolidamento di un fronte anti-iraniano che va dagli Usa a Israele all’Arabia Saudita oltre che l’eventuale ricorso a una forza che Tel Aviv e ancor più Washington possono dispiegare in forma letale. L’assunto ideologico è quello che fa dell’Iran un comodo capro espiatorio di tutti i problemi mediorientali (ai quali, va detto, Teheran non ha mancato di dare un rilevante contributo): un facile nemico attorno a cui costruire una narrazione resa più credibile dalla natura del regime iraniano e della sua teocrazia. Direttamente legate a questo sono le convenienze politiche ed elettorali: di Netanyahu e, anche, di Trump o di altri esponenti repubblicani tra i quali, appunto, il segretario di Stato Mike Pompeo. Come ha ben riassunto Fabio Nicolucci, uno dei più acuti commentatori italiani delle questioni mediorientali, questa iranofobia serve alla costruzione del consenso di fronte a opinioni pubbliche – nazionali e, nello specifico, conservatrici – marcatamente anti-iraniane. Secondo tutti i sondaggi di cui disponiamo, ad esempio, larghissime maggioranze di americani danno un giudizio fortemente negativo dell’Iran e lo considerano uno dei peggiori nemici degli Usa, se non il peggiore. Chi fa politica a destra negli Stati Uniti non può non tenerne conto come non può non tener conto dell’asse, strettissimo, venutosi a determinare tra l’elettorato evangelico statunitense, oggi così fondamentale per i repubblicani, e la destra nazionalista israeliana.

Strategia, ideologia, politica ed elezioni costituiscono le variabili di un’equazione incendiaria in un contesto di suo altamente infiammabile come quello mediorientale. E possono produrre decisioni difficilmente giustificabili nei metodi e immensamente pericolose nelle conseguenze.

Michael Flynn

Mi appassiona relativamente questa storia della grazia concessa da Trump a Flynn, devo dire. Come quella delle interferenze russe nella campagna del 2016; che secondo tutto quel che sappiamo, grazie anche al monumentale rapporto della commissione intelligence del Senato (votato anche dai repubblicani), ci furono e mirate esplicitamente ad aiutare Trump, la cui elezione però non è di certo spiegabile come frutto di queste interferenze (e i 75 milioni di voti che ha preso quest’anno sono lì a ricordarcelo).

E però, a prescindere davvero da simpatie o pregiudizi politici, Flynn è figura che dovrebbe suscitare ribrezzo a chiunque è dotato di un minimo di onestà intellettuale. Grossolanamente islamofobo durante la sua tenure come direttore della DIA, critica duramente Erdogan e sostiene il tentato golpe in Turchia nel 2016, salvo poi cambiare radicalmente di linea quando la sua azienda di consulting (creata con il figlio Michael Jr. ) comincia a ottenere contratti da più di mezzo milione di dollari da gruppi turco-americani legati ad Ankara. Si trasforma in pro-Erdogan, ottiene altre consulenze da gruppi vicini al Cremlino, non le dichiara e nel mentre – lobbista non dichiarato filoturco filorusso – diviene uno dei più ascoltati consiglieri del candidato Trump.

Alla convention repubblicana ci offre uno degli spettacoli più squallidi a memoria di uomo, quando lui – ex generale ed ex direttore DIA – da il là al “lock her up” contro la Clinton. Il figlio si dà da fare per sostenere la teoria complottistica del Pizzagate (sì, quella secondo la quale Clinton, Podesta & co. Gestissero una rete di prostituzione minorile in una pizzeria di DC e fossero parte di una cabal satanista globale). Da Consigliere per la Sicurezza Nazionale nominato ha incontri non autorizzati con l’ambasciatore russo, cui promette la rimozione delle sanzioni. Ed è quello che gli costa la nomina, lo porta sotto inchiesta e infine a essere condannato. Patteggia, fa atto di contrizione pubblica, collabora , ma poi ritratta e dichiara di essere stato incastrato. E viene ovviamente aiutato da Barr e dal dipartimento della giustizia.

Nel mentre, il 4 luglio lui e la sua famiglia prestano giuramente a Qanon. E scopriamo poi che a difenderlo – e a convincerlo a ritrattare il patteggiamento iniziale – è stata Sidney Powell, l’imbarazzante avvocata appena liquidata da Trump. Insomma, gli si dia pure la grazia e speriamo di non dover più sentire parlare questo personaggio corrotto e patetico.