Mario Del Pero

“our children will sing great songs about us years from now.” sulla “più lunga guerra americana di sempre”

 

Un paio di cose sull’Afghanistan. O, meglio, sugli Usa e l’Afghanistan, che lascio volentieri a chi ne sa molto più di me i commenti su come l’esercito e il governo siano crollati come un castello di carte, su questi nuovi talebani, sulle loro tante fazioni e sulla loro capacità ultima di garantire una qualche stabilità – brutale e oscurantista, ma comunque disciplinatrice – al paese, che poi è quanto gli stessi Usa (sia con Trump sia con Biden) auspica(va)no e che spiega in parte gli accordi d’inizio 2020.

  • L’intervento del 2001 aveva matrici e obiettivi diversi. Conseguiva, è ovvio, agli attentati dell’11 settembre e al bisogno, anche banalmente politico, per Bush di darvi un’immediata risposta. Colpire l’Afghanistan e abbattere il regime talebano serviva per smantellare la rete e le infrastrutture di Al Qaeda e rovesciare chi aveva permesso che operassero sul suo territorio. E serviva per dare un messaggio ai fragili governi di altri “failed/rogue states”, per usare lo slang tanto in voga all’epoca: che avrebbero dovuto provvedere a garantire ordine e disciplina sul loro territorio, pena un intervento esterno/statunitense. Vi era, infine, l’elemento “umanitario”, che l’Afghanistan doveva essere un’altra tappa dell’era dei diritti umani e della disponibilità della comunità internazionale, e del suo leader indiscusso, gli Usa, a usare se necessario la forza per garantirli/imporli/ripristinarli (furono, lo si ricorderà, soprattutto Blair, alcuni neoconservatori e non pochi falchi liberal – si rivedano ad esempio i pezzi di Chait & co su “The New Republic”, le posizioni di Ignatieff e anche quelle, più sofisticate sì ma comunque ambigue di Walzer (https://www.nytimes.com/2003/03/07/opinion/what-a-little-war-in-iraq-could-do.html) – ad articolarlo questo discorso e a legare anche esplicitamente l’Afghanistan al Kossovo e alla Bosnia; pur nei suoi problematici doppi standard e nelle sue tante opacità morali, sarebbe peraltro troppo facile rubricare tutto ciò a mera retorica).

 

 

  • La hybris era evidente (vedere la citazione di un influente neocon dell’epoca come Michael Ledeen qui in calce) così come gli assunti universalisti che vi sottostavano. Realistico o meno fosse quel progetto – e tanti esempi storici ci dicono che non lo era – avrebbe richiesto non solo gli investimenti massici che ci sono stati (qui le impressionanti stime del Watson Institute della Brown: https://watson.brown.edu/costsofwar/figures/2021/human-and-budgetary-costs-date-us-war-afghanistan-2001-2021), ma una ben altra presenza militare, oltre alla disponibilità a mantenerla sine die e, di conseguenza, ad accettare un numero ben più alto di vittime statunitensi

 

 

  • Anche perché da un lato venivano meno le condizioni che lo avevano determinato e dall’altro si spegnevano le illusioni che lo avevano giustificato. Gli Usa post-2008 non erano ovviamente quelli del 2001: paradossalmente erano più sicuri, che la paura del terrorismo era in parte rientrata, e più fragili, che l’illusione di onnipotenza unilaterale/unipolare – si rilegga l’emblematica, per molti aspetti incredibile NSS del 2002: https://georgewbush-whitehouse.archives.gov/nsc/nss/2002/  – si stava affievolendo. Al di là di tanti piccoli successi (importantissimi per chi ne poté beneficiare, ci mancherebbe) in Afghanistan, il nation-building e la modernizzazione apparivano come delle chimere. E nel discorso pubblico, politico e mediatico statunitense l’enfasi, quando si parlava di Afghanistan, era posta invariabilmente sulla corruzione, il malgoverno, le furbizie pakistane, e la tenuta ultima dei talebani

 

  • Così come andava mestamente chiudendosi la breve stagione dell’interventismo umanitario, nelle sue varie declinazioni e, appunto, nei suoi patenti doppi standard, e nelle sue mille contraddizioni. Qui si aprirebbe un capitolo lunghissimo su come abbia in una certa misura anch’essa concorso a fornire una grammatica alle dinamiche d’integrazione globale dell’ultimo mezzo secolo (anche su questo vi è una letteratura ricchissima, ma un buon punto di partenza è lo scambio tra Hoffmann e Moyn sul “Past & Present” del 2018: https://academic.oup.com/past/article-abstract/232/1/279/1752430 ; e la periodizzazione di Hoffmann, tutta centrata sugli anni Novanta, è per quanto mi riguarda molto convincente). Detta molto grossolanamente, dopo il 2008 morire o anche solo spendere dei dollari per Kabul è diventato politicamente impopolare se non insostenibile. E in fondo, l’argot realista di Obama e Trump – per quanto si voglia colto e niebuhriano il primo, e rozzo e primitivo il secondo – rifletteva questa svolta ovvero la necessità, per chi stava alla Casa Bianca, di accogliere le sollecitazioni di un’opinione pubblica insofferente se non ostile verso queste guerre e sempre più refrattaria a sostenere l’oneroso interventismo globale del post-Guerra Fredda.

 

  • Il gioco dell’attribuzione delle responsabilità – Biden, Trump, Obama, Bush, Clinton, possiamo arrivare fino a Carter e Reagan e le covert operation promosse dal 79 all’89 – potrà gratificare le nostre simpatie o antipatie politiche, ma serve davvero a poco. Che quelle responsabilità sono ovviamente condivise; che – credo – si converga tutti nell’individuare nella decisione di intervenire in Iraq nel marzo 2003 un colossale errore; che anche senza l’Iraq (ma su questo invece vi è meno consenso), difficilmente in Afghanistan le cose sarebbero sul lungo periodo andate diversamente. Obama porta le sue di responsabilità, che in fondo fu lui a contrapporre – anche per convenienza elettorale – la guerra giusta e necessaria in Afghanistan a quella scelta ed evitabile in Iraq, salvo poi promuovere una mezza escalation con deadline, molto obamiana nel suo voler tenere assieme tutto, che servì a poco; credere che sia sua la responsabilità primaria vuol dire davvero essere accecati dal pregiudizio e, anche, dall’ignoranza.

 

  • Detto ciò, quel che sta avvenendo avviene sotto la leadership di Biden; e suoi sono quindi questo fallimento e questa sconfitta (acuiti, ovviamente, dalla pessima comunicazione e dalla gestione di un’evacuazione per la quale si pensava di avere molto più tempo). La “più lunga guerra americana di sempre” si chiude con immagini che, quelle sì, rimandano ovviamente al Vietnam 75. Di umiliazione, per gli Usa e chi li guida, si tratta, questo è indiscutibile. Da più parti si utilizza però una categoria, quella di “credibilità” (e della credibilità perduta dagli Usa), che come gli storici ben sanno (https://press.uchicago.edu/ucp/books/book/chicago/M/bo3635962.html ) è tanto invocata quanto abusata e, anche, pericolosa (è stato il buon Kissinger, sia sul Vietnam sia sull’Iraq, a mostrarci bene quali cortocircuiti l’enfasi sulla “credibilità” possa provocare, affermando in entrambi i casi che, anche se si era trattato probabilmente di un errore intervenire, una voltà lì gli Usa non potevano più uscirne perché, appunto, avevano messo in gioco la loro credibilità….). Il problema non è la credibilità, ma – molto più concretamente – quel che avverrà o non avverrà in Afghanistan (così come quello che è avvenuto nel Vietnam comunista, oggi importante partner e alleato degli Stati Uniti). Se l’Afghanistan dovesse tornare a essere rifugio di gruppi terroristici che colpiscono gli Usa e l’Europa, allora Joe Biden sarà a tutti gli effetti colui che “ha perso l’Afghanistan” con le pesanti conseguenze politiche e, anche, elettorali del caso. Se l’Afghanistan dei talebani rimarrà un regime mostruoso, oscurantista e violento, attraversato da periodici conflitti interni, che però si limita al massimo a contribuire all’instabilità regionale, allora negli Usa si dimenticherà rapidamente quanto avvenuto.

 

  • E si dimenticheranno anche i milioni di uomini e donne afghane costretti a viverci in quel regime. Perché è facile, e da studiosi indispensabile, sottolineare le contraddizioni, le opacità, le ipocrisie dei diritti umani post-anni 70, della loro declinazione parziale e selettiva, dei paradossi delle guerre umanitarie, dei doppi standard, ecc ecc ecc. Perché rileggere oggi la Albright o Samantha Power e il suo “Problem from Hell”  fa un’impressione non dissimile dall’accendere un Commodore 64. E però, non so voi, ma il pensiero di come sarà la vita di una ragazzina afghana nei mesi e anni a venire a me mette un’angoscia e un magone difficili a descriversi

Qui, infine, la citazione di Ledeen del novembre 2001

““No stages. This is total war. We are fighting a variety of enemies. There are lots of them out there. All this talk about first we are going to do Afghanistan, then we will do Iraq… this is entirely the wrong way to go about it. If we just let our vision of the world go forth, and we embrace it entirely and we don’t try to piece together clever diplomacy, but just wage a total war… our children will sing great songs about us years from now.”

“America’s Longest War

L’avanzata dei talebani in Afghanistan procede, più rapida delle previsioni e degli auspici. Diverse capitali provinciali sono cadute sotto il loro controllo e le forze armate governative, che in termini strettamente numerici soverchierebbero l’avversario 4 a 1, non sono in grado di fermare l’offensiva nemmeno in quei centri nodali, come Herat e Kandahar, dove avevano dispiegato le loro forze speciali. Una scelta criticata da molti nell’amministrazione Biden, a sua volta però oggetto di critiche feroci per la decisione di ritirare anche le ultime truppe statunitensi e per l’eccessivo ottimismo mostrato nella possibilità di negoziare con i talebani e giungere a un qualche governo di unità nazionale.

Cosa ci dice questo ultimo, tragico atto del dramma afghano? Quali indicazioni possiamo trarne, rispetto al futuro della regione e al più generale contesto internazionale? Quattro, in estrema sintesi, sono le possibili risposte.

La prima è che gli Usa non sono più disposti a promuovere una politica estera onerosamente interventista e centrata primariamente sullo strumento militare. Opera il convincimento, e probabilmente l’illusione, che la tecnologia faciliti e permetta questo disimpegno: che droni e bombardamenti siano sufficienti per inibire l’azione dell’avversario. Ma pesa anche il logorio prodotto da due decenni di guerra: da quella che, scalzando il Vietnam, è divenuta “la più lunga guerra americana di sempre”. Una guerra costata – secondo le stime del Watson Institute della Brown University – circa 2 miliardi e 260 milioni di dollari e che ha causato 240mila morti, dei quali circa 6mila statunitensi, tra militari e contractors. E una guerra fattasi al tempo stesso invisibile e impopolare. Osteggiata da una maggioranza di americani, al contempo sempre più disinteressati verso quanto stava accadendo in Afghanistan.

Una guerra peraltro intrapresa con obiettivi non strettamente militari. Funzionale, anzi, non solo a rovesciare il regime talebano e smantellare le basi e il network di Al-Qaeda, ma a promuovere un ambizioso progetto di modernizzazione politica, culturale e socio-economica del paese: a costruire una nuova nazione afghana, a fare del “nation-building” nello slang tanto in voga vent’anni fa. Qui il fallimento è ancor più eclatante di quello militare. Si tratta però di un fallimento che s’inserisce entro una casistica consolidata. Da un lato c’è la contraddizione di pensare di poter usare le armi per obiettivi altri da quelli strettamente militari. Dall’altro vi è una storia – lunga, drammatica e ampiamente studiata – di fallite modernizzazioni imposte o esportate dagli Usa. In forme diverse sia Trump sia Biden lo hanno riconosciuto: spetta agli afghani costruire o difendere la loro nazione (o scegliere in che tipo di nazione intendono vivere).

Terzo aspetto: le conseguenze regionali e globali. Improvvisati commentatori già prospettano complessi giochi strategici, con i talebani pronti a schierare l’Afghanistan con la Russia o addirittura con la Cina nella grande sfida per l’egemonia con gli Usa. Difficile prendere sul serio questi scenari da Risiko. Se mai dovessero prendere il potere, i talebani – a loro volta divisi in tante fazioni e gruppi – faranno fatica anche solo a controllare un territorio impervio e complesso come quello afghano. Potranno, quello sì, contribuire a una instabilità regionale che oggi per varie ragioni sembra preoccupare molto meno Washington. E di certo imporranno al popolo afghano un regime violento e oscurantista. Ed è questa la quarta e ultima lezione di quanto sta accadendo. Travolta dalle sue contraddizioni, dai suoi doppi standard e dalle sue ambiguità morali, l’epoca dell’interventismo e della responsabilità della comunità internazionale a garantire alcuni basilari diritti umani pare volgere mestamente al termine. E a morire, o anche solo a spendere un dollaro dei contribuenti, per una donna o un bimbo afghano nessuno negli Usa o in Europa è oggi più disposto.

Il Giornale di Brescia, 13 agosto 2021

I 60 anni di Obama

Ha compiuto 60 anni, Barack Obama. E – ci hanno fatto prontamente sapere i media – è stato pure lui costretto da questa nuova ondata della pandemia a ripiegare su una festa di dimensioni ridotte rispetto a quelle gigantesche inizialmente pianificate. Un genetliaco, soprattutto uno così significativo come i 60 anni, diventa tempo di bilanci, individuali e, per figure storiche come l’ex Presidente Usa, pubblici. Bilanci che, nel caso di Obama e del suo lascito, non possono che essere ambivalenti e ambigui. Proviamo allora a esaminarle queste ambivalenze per cercare di comprendere cosa esse ci dicano degli Usa e della loro storia recente. Da un lato abbiamo un ex Presidente che ha visto crescere continuamente la sua popolarità: che ha terminato il suo mandato con un tasso altissimo di apprezzamento (59% favorevole e 37% contrario, secondo Gallup); che secondo i sondaggi si colloca tra gli ex-Presidenti più popolari di sempre, ai livelli di Reagan o di Franklin Delano Roosevelt. Come popolari e, in ultimo, solide si sono rivelate alcune delle più importanti riforme dell’era obiamana a partire da quella della sanità – la famosa “Obamacare” – che, aspramente osteggiata dai suoi avversari e vittima d’innumerevoli tentativi di smantellamento, è riuscita a sopravvivere, raccoglie ora consensi ampi e politicamente trasversali, piace anche a molti elettori repubblicani, ed ha prodotto un significativo ampliamento della sanità pubblica. E però popolarità e successi non possono occultare sia gli insuccessi di Obama sia una marginalità, quella pubblica e politica dell’ex Presidente oggi, in parte sì fisiologica, ma che pochi avrebbero immaginato quando Obama si congedò dalla Casa Bianca.

Politico per molti aspetti moderato e incline al dialogo, che fece della collaborazione bipartisan la bandiera del suo agire e della sua retorica, Obama ha presieduto a un’era di radicale divisione e polarizzazione degli Stati Uniti. Emblema di un’America post-razziale, capace di superare finalmente la storica ferita che ha segnato ab origine la storia degli Usa, da Presidente ha visto riesplodere lo scontro razziale. Incarnazione, anche nella sua peculiare biografia, di un cosmopolitismo che avrebbe dovuto facilitare il rilancio della collaborazione multilaterale e della governance globale, ha assistito all’ulteriore implosione della leadership statunitense e di un modello d’integrazione globale le cui fragilità erano state drammaticamente messe a nudo dalla crisi del 2008. Simbolo di un’America colta, articolata capace di dare risposta al degrado delle forme e del linguaggio della politica si è trovato a essere sostituito da una figura che quel degrado incarna e sussume in modo parossistico e quasi caricaturale.

Obama ha per molti aspetti pagato quel che era e simboleggiava, più che quel che faceva e le politiche che promuoveva. È stato un buon Presidente, come attestano appunto i risultati di tante sue riforme. Ma il suo nome è destinato a essere associato a un’epoca storica caratterizzata da questi elementi. Oltre che – e qui forse la sua responsabilità diretta è maggiore – all’incapacità di dare piena strutturazione politica e organizzativa all’entusiasmo generato dalla sua storia personale e dalla sua elezione. Per quanto sia ancora troppo presto per dei bilanci, anche la sua parabola post-presidenziale pare mostrarcelo. Obama è ormai una sorta di icona della cultura pop statunitense, presenza abituale del jet set, che si diletta a fare i podcast con Bruce Springsteen e per il compleanno organizza appunto eventi mondani con 500 invitati (le cronache ci dicono che a lasciare il loro posto per ridurre il numero siano primariamente ex membri dell’amministrazione e consiglieri del Presidente, non le star come Jay-Z, Steven Spielberg e Beyoncé). Di politica, che non siano interventi durante le campagne elettorali, filantropia, impegno sociale o pedagogia pubblica per il momento se ne vedono invece davvero pochi.

 

Il Giornale di Brescia, 8 agosto 2021

DI JACOBS, DOPING E DEL “BENEFICIO DEL DUBBIO”

Se lo abbiamo solo un po’ praticato e molto guardato/letto, lo sport – si sa – ci rende bambini. Come tanti mi sono trovato a saltare come un ossesso durante la finale dei 100 e a esultare sguaiato per il 2.37 di un’atleta, Tamberi, cui fatico davvero a perdonare l’osceno attacco a Schwazer nel 2016 (lo definí “vergogna d’Italia”) e del quale trovo urticanti gli atteggiamenti e il linguaggio pre-pubertali.
 
Ci rende bambini, lo sport. E ci rende patrioti da sofà e della domenica (per rimanere all’autobiografico, nel weekend della finale degli europei mi sono ritrovato a postare e inviare meme anti-inglesi come se piovesse…). E però, visto che di patriottismo da sofà, per quanto emotivamente gratificante, appunto si tratta, sarebbe buona cosa ci dessimo tutti una bella calmata. Dopo la vittoria agli europei è partito tutto uno sciocchezzaio, rilanciato una volta ancora dai media mainstream che venderebbero un rene per un click in più, sugli inglesi rosiconi che raccoglierebbero firme per rifare la finale o cancellerebbero le vacanze in Italia (controllare magari che fosse per il Covid e le nuove restrizioni? Che analoga cosa stava accadendo per la Grecia e la Spagna?)
 
Ora il nuovo tormentone sarebbero le accuse di doping a Jacobs. Che vengono da carta igienica come il Mirror. O che sono espresse con garbo – e non sono di fatto accuse – dal Washington Post e altri. Che sottolineano come, a causa di tanto pregresso anche recente, un’impresa splendida come quella di Jacobs provoca immediatamente un dubbio; che l’ultimo/a vincitore/vincitrice di un’olimpiade capace di migliorarsi così tanto, in così poco tempo e a un’età sportiva già avanzata, fu Florence Griffith nel 1988. Che il WP scriva che a Jacobs si possa concedere il beneficio del dubbio, ma all’atletica no, è la cosa più normale del mondo (al solito, poi, si è estrapolato un passaggio di una frase più complessa: “Non è colpa di Jacobs se la storia dell’atletica genera un sospetto su un miglioramento cosi improvviso e immenso” – Jacobs ha migliorato il suo personale tre volte alle olimpiadi, portandolo da 9.95 a 9.80, mai prima di quest’anno era sceso sotto i 10 – “Gli annali dello sport sono pieni di campioni improvvisi poi rivelatisi imbroglioni dopati. Sarebbe ingiusto accusare Jacobs. Sarebbe incompleto non riconoscere il contesto del suo risultato. Jacobs merita il beneficio del dubbio, ma il suo sport no”, scrive il WP).
 
Insomma, diamoci tutti una calmata, leggiamo le cose per bene, non facciamoci accecare da un patriottismo da sofà e, magari, evitiamo di prendere sul serio il Mirror & co.

 

Vaccini, nuove ondate e politica statunitense

Per quanto ancora lontani dai numeri di contagi, ricoveri e morti dei picchi precedenti, gli Stati Uniti – o almeno alcune loro parti – sembrano essere entrati pienamente in una nuova ondata di questa interminabile pandemia. Trascinati dall’alta diffusione e contagiosità della variante Delta, i nuovi contagi si avvicinano pericolosamente a una media di 100mila al giorno; i morti quotidiani sono ora più di 300, con un totale che supera abbondantemente i 600mila.

A trascinare questa nuova ondata sono Stati e contee caratterizzati da un basso tasso di vaccinazione. Le agenzie federali e statali competenti stimano che tra il 96% e il 99.5% dei morti di Covid dell’ultimo semestre – quando la campagna vaccinale ha iniziato a operare a pieno regime – siano di persone non vaccinate. Il tasso di mortalità varia in maniera significativa con una correlazione plasticamente proporzionale alla percentuale di vaccinati: negli Stati dove è più bassa, come l’Arkansas o la Louisiana, è di 4/5 volte superiore alla media nazionale.

E però, negli Usa come da noi, un movimento no-vax, minoritario ma non irrilevante, si mobilita e rallenta fortemente una campagna ben lontana dal raggiungere i risultati promessi da Biden (a oggi la percentuale di persone che ha completato il ciclo vaccinale non supera il 60%). I problemi rispetto alla pandemia sono almeno tre. In primo luogo tornano in sofferenza molti ospedali e terapie intensive, con ovvi riverberi sulla Sanità nel suo complesso, che di fronte all’emergenza e a risorse limitate è chiamata a scelte difficili ovvero a postporre tutta una serie di cure e prestazioni non legate al virus. In secondo luogo, almeno su scala locale e regionale vi è il rischio di dover riattivare politiche restrittive, inclusi lockdown più o meno severi, che hanno un ovvio impatto per tutta la popolazione, inclusa quella vaccinata. Infine, sottolinea l’ultimo rapporto dell’agenzia federale competente – il CDC (il Centro per la Prevenzione e il Controllo delle Malattie) – i non vaccinati non solo intasano le terapie intensive  e facilitano la diffusione del virus, ma gli offrono lo spazio ideale per replicarsi e mutare, con il rischio ultimo di aiutare lo sviluppo di varianti capaci magari di superare, o rendere meno efficaci, le barriere vaccinali esistenti.

L’amministrazione Biden cerca di rilanciare, con vari incentivi a vaccinarsi, sapendo di trovarsi di fronte a un problema che rischia di danneggiarla politicamente e, in prospettiva mid-term 2022, anche elettoralmente. È sul fronte della lotta al Covid che Biden ha promesso, e in parte realizzato, una forte discontinuità con il suo predecessore. Ed è proprio su questo tema che una parte largamente maggioritaria del paese ha dato finora un giudizio positivo. Nuovi lockdown e restrizioni difficilmente sono tollerabili da una popolazione che, negli Usa come in Europa, ritiene oggi di avere dato e sacrificato a sufficienza. E promesse in ultimo disattese – quali quelle della campagna di vaccinazione di Biden – possono ovviamente generare delle reazioni critiche. A rischiare sono però anche i repubblicani, come ben visibile nel caso di quei governatori che hanno fatto marcia indietro rispetto a qualche mese fa e ora sostengono essi stessi le campagne di vaccinazione e finanche l’introduzione di pass per i vaccinati. Repubblicani costretti a gestire estremismi anti-vaccino particolarmente diffusi nel loro elettorato, ma chiaramente minoritari nel paese; e che, appunto, devono fare i conti con una politica, quella di Biden, ancora popolare. E anche dall’intreccio tra evoluzione del virus, nuove ondate e calcoli politico-elettorali dipenderà in ultimo come gli Usa gestiranno la pandemia nei prossimi mesi.

Il Giornale di Brescia, 2 agosto 2021

Di Obamacare, sanità pubblica e tempo galantuomo

Il tempo, si sa, è galantuomo. E anche quando non lo è, offre comunque allo storico il distacco e le fonti con cui meglio esaminare e giudicare una politica o un dato evento. Per quanto ancora breve, quel tempo (11 anni dalla sua approvazione) ci permette oggi una valutazione più articolata e obiettiva dell’Affordable Care Act – più noto come Obamacare – la riforma della sanità di Obama che tanto divise il paese, contribuendo anch’esso alla radicale polarizzazione politica dell’ultimo decennio. Riforma che in tante contee fallì nel suo tentativo di creare un mercato competitivo di polizze, in grado di ridurre i costi e migliorare l’offerta (anche a causa della rinuncia alla “public option”, un pesante compromesso necessario per far passare la riforma al Congresso);  e che ha visto indeboliti alcuni suoi pezzi (non tanto dalla Corte Suprema, ma dal Congresso repubblicano, in particolare con il voto del dicembre 2017 che toglieva la sanzione finanziaria a chi non si assicurava).

Ma riforma che non è mai stata così popolare – 53 a 35 secondo il più recente sondaggio della Kaiser Foundation; e che ha contribuito a una riduzione drastica del numero di persone prive di copertura sanitaria, diminuite di quasi 20 milioni (da ca 46 a ca 26, dal 18 al 10% del totale) grazie a Obamacare (sono poi tornate a salire con Trump, il presidente della working class, secondo taluni improbabili commentatori nostrani, che tutto ha fatto per boicottare la riforma senza offrire nulla in cambio). Il dato davvero interessante – e non sappiamo se fosse o meno un obiettivo deliberato – è che il risultato è stato ottenuto attraverso un robusto ampliamento dell’offerta di sanità pubblica, in particolare attraverso l’ampliamento di Medicaid – il programma destinato a percettori di redditi, individuali e famigliari, più bassi, amministrato a livello statale – che Obamacare agevola attraverso forti finanziamenti federali e alzando la soglia massima di reddito sotto la quale si ha diritto ad accedervi. È di questi giorni la notizia che la Corte Suprema del Missouri – uno Stato che Trump ha vinto con quasi venti punti percentuali di scarto – ha all’unanimità confermato la costituzionalità del referendum dell’anno scorso che prevede l’ampliamento di Medicaid in uno degli Stati – tutti repubblicani – che con ideologico autolesionismo aveva rifiutato gl’incentivi di Obamacare. A oggi sono ancora dodici quelli che non hanno accettato di espandere Medicaid; ma il programma – e l’idea stessa di potenziare la sanità pubblica – è sempre più popolare,  e dopo la riduzione di Medicaid del “presidente della working class” (quella, appunto, che più beneficia del programma), il numero di persone che vi accedono è tornata a salire – anche, e ovviamente, in conseguenza della pandemia – e il numero di americani che ne beneficiano è passato dai 56 milioni pre-Obamacare agli 81 attuali, con una crescita superiore al 40%. E oggi – per buona pace di chi ancora crede non vi sia sanità pubblica negli Usa o che Obama abbia agito per agevolare le compagnie assicurative – la percentuale di americani che beneficia di una copertura sanitaria pubblica (Medicaid, Medicare – il programma per gli over 65 – et al) si colloca tra il 35 e il 40% del totale. Anche in prospettiva midterm, la sanità è chiaramente uno dei punti di forza dei democratici (come l’immigrazione lo è per i repubblicani). Se ne rendono conto pure i repubblicani; che reagiscono però in modo talora grottesco, come nel caso della nuova n.3 del partito alla Camera – la giovane deputata dello stato di NY Elise Stefanik – che nel celebrare l’anniversario delle riforme di LBJ che portarono alla creazione di Medicare/Medicaid, invita a rigettare gli “schemi socialisti” di ampliamento della sanità pubblica (fig. 1, con la divertente presa in giro del buon Dan Rather). Una topica, quella della Stefanik, che ci ricorda quei fantastici cartelli dei manifestanti contro Obamacare, nei quali si invitava il governo a non mettere le mani su Medicare (il programma pubblico/federale per gli over 65 appunto, fig. 2) …

 

Potrebbe essere uno screenshot di Twitter raffigurante 1 persona e il seguente testo "Dan Rather @DanRather Who's going to tell her? Elise Stefanik @EliseStefanik 2h Today's Anniversary of Medicare & Medicaid reminds us to reflect on the critical role these programs have played to protect the healthcare of millions of families. To safeguard our future, we must reject Socialist healthcare schemes. 12:28 PM 7/30/21 Twitter Web App"ThePopTort: Holding Governments Accountable When They Hurt People

DI VACCINI, “BREEDING GROUNDS” E FOX NEWS

Il Center for Disease Control and Prevention (CDC), l’autorità federale competente dipendente dal dipartimento di Health and Human Services, ci offre dati se non spaventevoli quantomeno molto preoccupanti su questa quarta ondata del Covid negli Usa. Trascinati dalla variante Delta, i casi di Covid sarebbero in aumento nel 90% delle contee del paese; pur se lontani dai picchi del gennaio scorso, i casi sono aumentati del 250% in poco più di un mese. Il tracker del NYTimes, che riprende, aggrega e sistematizza i dati del CDC, indica una crescita del numero di morti da Covid del 20% in due settimane. Il tasso di mortalità – dice il CDC e i suoi vertici – è strettamente legato a quello di vaccinazione; quasi sempre sono gli stati con basse percentuali di vaccinati quelli dove il tasso di mortalità è più alto (in Arkansas, ad esempio, è di quasi quattro volte superiore alla media nazionale e di sei/sette rispetto a quella di stati con le più alte percentuali di vaccinati come NY o Massachusetts). Fauci e la direttrice del CDC Rochelle Walensky dichiarano addirittura che il 99.5% dei morti di Covid negli ultimi sei mesi erano non vaccinati. Le autorità statali offrono dati lievemente diversi, ma comunque molto elevati (in Alabama la percentuale sarebbe del 96.2)

Concentrati in una fascia della popolazione – anziani che vivono in aree non urbane e in stati soprattutto repubblicani – chiaramente sovrarappresentata tra il suo pubblico, pure Fox News si è sentita in obbligo di lanciare una campagna pro-vaccinazione che ha coinvolto anche alcuni suoi volti storici, con l’eccezione dell’ineffabile Tucker Carlson (e anche alcuni repubblicani si stanno mobilitando, non ultimo per la popolarità delle politiche e della linea di Biden sul tema).

Poco male, pensarà chi crede che in fondo negazionisti del Covid e no-vax assortiti non altro meritino. Non è ovviamente così, come Fauci & co non si stancano di sottolineare nel loro sforzo quotidiano di pedagogia pubblica. Perché la nuova impennata di contagi e morti manda in sofferenza una volta ancora il sistema sanitario, intasando le terapie intensive e sottraendo risorse ad altri fronti; perché una nuova ondata rischia d’imporre altri lockdown e restrizioni che colpiscono tutti; perché – il dato forse più preoccupante – per quanto largamente minoritari tra la popolazione, i non vaccinati offrono un ospite ideale – un terreno di coltura e riproduzione ideale – a ulteriori mutazioni del virus che, in teoria, potrebbero in futuro indebolire o aggirare le barriere vaccinali di cui si dispone oggi

Del Busto di Nathan Bedford Forrest e degli stereotipi sui monumenti che cadono

È stato rimosso ieri dal Capitol di Nashville il busto di Nathan Bedford Forrest, commerciante di schiavi, generale della Confederazione (noto per aver fatto ammazzare un centinaio di soldati unionisti neri dopo che questi si erano arresi) e primo “Grand Wizard” del Ku Klux Klan. Verrà trasferito nel museo statale della storia del Tennessee. Un’altra statua di Forrest era stata rimossa da un parco di Memphis nel 2017 (e fu acquistata da una delle più importanti organizzazioni create a fine 800/inizio 900 per celebrare la causa confederale, la “Sons of Confederate Veterans”). La statua rimossa a Memphis era stata eretta nel 1905, in un’epoca in cui la piena riaffermazione del dominio bianco nel Sud si accompagnava a una celebrazione della “causa perduta” nella quale centrale era appunto l’erezione di tanti monumenti in onore degli eroi di quella causa. Il busto del Capitol di Nashville era stato invece inaugurato nel 1978, nonostante le proteste di varie organizzazioni afro-americane; una decisione – quella di mettere il busto di Forrest – bipartisan, promossa da un democratico, Douglas Henry (che, leggo, è stato il membro di più lungo corso, 43 anni, nella storia del Congresso del Tennessee), la cui rimozione è stata osteggiata fino all’ultimo dall’attuale lieutenant governor e presidente del Senato del Tennessee, il repubblicano Randy McNally. E una decisione – approvata dal Senato del Tennessee nel 1973 – spiegabile con il clima politico dell’epoca: la ribellione del Sud bianco al movimento per i diritti civili e alle politiche anti-segregazioniste degli anni Sessanta (tra i promotori dell’iniziativa vi furono vari sostenitori della candidatura di George Wallace nel 1968); il passaggio di questo Sud bianco dai democratici ai repubblicani; il rilancio di un’idea di primato del potere statale su quello federale, nel quale centrale era ovviamente la questione razziale, e che tanta parte ebbe nella svolta neoconservatrice degli anni 70-80.

La vicenda della rimozione del busto di Forrest è interessante e significativa per diversi motivi. Ci mostra, banalmente, come una soluzione sensata – quella della rimozione/musealiizzazione/storicizzazione – esista per questi monumenti “problematici”. Ci rivela però anche quanto diffusa sia questa monumentalistica che informa e alimenta la memoria della causa perduta e del dominio bianco. Di statue, busti, strade e parchi dedicati a Forrest ve ne sono ancora moltissimi in tanti stati del Sud; e sono monumenti che, nel celebrare un passato, finiscono ovviamente per parlare – e parlare drammaticamente – al presente di un’America polarizzata e lacerata anche dalla questione razziale. Ed evidenzia come senza la mobilitazione contro questa monumentalistica – che tanti nostri maître à penser rubricano e generalizzano invariabilmente come manifestazioni di una deprecabile “cancel culture” – difficilmente avremmo ottenuto tali risultati. Critichiamone pure gli eccessi di questa mobilitazione, ma cerchiamo di tenere bene a mente il contesto che l’ha generata e le sue tante conseguenze positive.

DELL’INDIGNAZIONE, DELLA CANCEL CULTURE E DELLO STUDIO DELLA STORIA

Le bufale sulle università americane che cancellerebbero i classici in quanto razzisti ovviamente irritano, anche perché nemmeno di fronte ai banali fatti – tipo Princeton che in realtà potenzia l’insegnamento delle lingue classiche o Howard che non annulla alcun insegnamento, ma semplicemente li trasferisce nei dipartimenti affini – si riesce a far cambiare idea a chi si crogiola evidentemente nel proprio pregiudizio e nella propria ignoranza. E però, dovrebbe irritarci ancor di più la totale assenza di qualsivoglia capacità di contestualizzazione e storicizzazione del dibattito sulla cancel culture, indispensabile per capirne i termini e – senza giustificarli, tutt’altro – anche alcuni palesi eccessi. Un po’ come chi discute in termini strettamente tecnico-procedurali l’attuale profluvio di leggi statali che regolamentano le modalità di voto, senza considerare quanto l’accesso al voto, ovvero la sua negazione, abbia costituito strumento privilegiato della segregazione razziale; o chi – negando le mille incrostazioni storico-politiche di un razzismo sistemico intrinseco alla parabola della democrazia statunitense – pensa di cavarsela con qualche dato a casaccio nel negare la persistenza di questo razzismo e i suoi tanti retaggi, dal reddito all’istruzione, dalla sanità alle carceri (e nel farlo, implicitamente o meno, offre una spiegazione biologica o culturale, e quindi pienamente razzista, delle tante disparità che questi dati rivelano).

Sia come sia, fa impressione vedere come molti degli attacchi a progetti (problematici e contestabili) come il 1619 Project del Times o alle proposte di riforma dei curricula scolastici siano appunto privi di qualsiasi contestualizzazione. Come se la discussione nel 2021 fosse calata dall’iper-spazio e non riflettesse, di nuovo anche nei suoi criticabili eccessi, processi e fratture di ben più lungo periodo. E, infine, come se la agency fosse di una parte sola; come se l’amministrazione Trump non avesse offerto un contro-progetto di “educazione patriottica”, con la sua 1776 Commission, che sembrava uscire direttamente dagli anni Venti del secolo scorso. Come se nei distretti scolastici di larga parte degli Usa oggi non fossero ancora in uso manuali di storia che neanche nel nostro Risorgimento.  Come se in Texas solo pochi giorni fa uno dei principali musei della storia dello Stato, il Bullock di Austin non avesse cancellato sotto le pressioni del governo statale la presentazione di un libro su Alamo che, in linea con quanto gli storici scrivono e spiegano da decenni, smantellava miti consolidati nella cultura pubblica e ricordava quanto centrale fosse la preservazione della schiavitù nella guerra condotta dagli indipendentisti texani (alcuni anni fa, di fronte a una proposta di una revisione dei curricula del 7th grade, più o meno la nostra seconda media, il governatore Abbot tuonò in un tweet: “fermate il politically correct; è ovvio che ai nostri studenti si debba insegnare che i difensori dell’Alamo erano degli eroi”). Come se lo stesso Abbot non avesse appena approvato una legge che istituisce il 1836 Project, una commissione il cui obiettivo è di promuovere una “educazione patriottica” che “rafforzi la consapevolezza di quei valori texani che continuano a generare illimitata prosperità in tutto lo Stato”… (“The 1836 Project is established as an advisory committee to promote patriotic education and increase awareness of the Texas values that continue to stimulate boundless prosperity across this state”). Come se nell’annunciare la sua firma, Abbot non avesse affermato che “per fare in modo che il Texas resti il miglior Stato degli Usa, non si deve dimenticare perché il Texas è divenuto così eccezionale in the first place. Insomma, ci s’informi un po’ di più, ci s’indigni un po’ di meno e si studi un po’ di storia, che male non fa mai

IL PUNTO

L’entusiasmo per la vittoria di Biden (alla fine più larga del previsto, con 7 milioni di voti in più per Biden); il convincimento che il grottesco rifiuto dell’esito del voto da parte di Trump, culminato con l’assalto al Congresso del 6 gennaio, avrebbe aperto una pesante resa dei conti per i repubblicani, indebolendone sia la forza elettorale futura sia la capacità di bloccare l’azione della nuova amministrazione; l’entusiasmo per il barrage di provvedimenti esecutivi di Biden e la prima legislazione, lo stimulus di marzo, che pareva preconizzare un’azione radicalmente progressista. Questo e altro ha indotto molti a dimenticare alcune problematiche indicazioni che vengono tanto dalla storia recente degli Usa quanto, e ancor più, dal voto di novembre. In un contesto di polarizzazione estrema – che tende a paralizzare l’azione legislativa e indurre a un uso pesante (e di suo problematico, in termini di democrazia ed efficienza) degli strumenti “esecutivo-amministrativi” – il voto di novembre 2020 non aveva affatto consegnato ai democratici gli strumenti per governare in modo incisivo e radicale. Alla Camera i democratici avevano perso numerosi seggi e si trovano con la maggioranza più risicata degli ultimi 20 anni; al Senato solo la miracolosa doppietta nelle elezioni suppletive in Georgia ha permesso un pareggio rotto solo dal voto della vice-Presidente, in virtù del quale un democratico conservatore come Manchin fa il bello e il cattivo tempo e comunque la soglia dei 60 voti per spezzare il filibustering la si vede con il binocolo; a dispetto d’investimenti pesantissimi, nel voto per le assemblee legislative statali i democratici sono andati molto male, in una scadenza cruciale visto che con i dati del nuovo censimento si ridefinisce la rappresentanza statale (il Texas, per esempio, ha guadagnato 2 seggi) e si ridisegnano i collegi. Il tutto in un contesto in cui per i repubblicani uno dei principali successi dei 4 anni di Trump alla Casa Bianca era stato quello di nominare una miriade di giudici federali, ponendo una pesantissima ipoteca sul futuro, anche perché in assenza di codificazione legislativa le politiche pubbliche si fanno per via esecutiva e sono automaticamente esposte ai ricorsi alle corti. E ora? Ora, e nell’ordine:

  • Vari stati approvano provvedimenti restrittivi, talora pesantemente restrittivi, sulle modalità che facilitano l’accesso al voto, finalizzati – è inutile girarci attorno – a ridurre la partecipazione elettorale di segmenti cruciali della maggioranza democratica, su tutti gli afro-americani nelle grandi aree metropolitane. Al Senato non passa (manco ci si avvicina in realtà) una legge federale che avrebbe imposto un quadro normativo limitante la discrezionalità degli stati. E nemmeno passa un moderatissimo tentativo di mediazione di Manchin
  • L’ambiziosissimo piano d’investimenti infrastrutturali proposto da Biden pare essersi già arenato; ovvero è stato drasticamente rimodulato al ribasso (praticamente dimezzato in termini di spesa) e l’amministrazione, per cercare di ottenere qualche voto repubblicano, ha fatto delle aperture inattese anche rispetto all’aumento della corporate tax dal 21 al 28% (pre Trump era il 35)
  • Su scala locale – come ben si è visto nelle primarie di NY – i democratici fanno i conti con una realtà di suo immensamente complessa, che una certa demagogia (tipo il “defund the police”) ha reso ancor più difficile da affrontare
  • Un giudice della Louisiana, nominato da Trump, accoglie il ricorso di 13 stati e blocca uno dei primi provvedimenti esecutivi di Biden con il quale si congelavano nuove concessioni per l’estrazione di petrolio e gas su terre federali. Misura, sostiene il giudice, per il quale è necessario un voto del Congresso. Nelle maglie – larghe, anacronistiche e invariabilmente interpretabili della Costituzione – la decisione del giudice appare corretta o comunque avere un solido fondamento. Sia come sia, ci offre un antipasto di cosa avverrà nei prossimi mesi (e della ragione per cui governare senza legiferare pone tanti problemi, di efficienza e democraticità, come già vedemmo con Obama e con Trump)
  • Una faida divisiva tra i repubblicani non vi è stata. Il partito rimane pienamente trumpiano, sono partite le epurazioni dei pochi che votarono per l’impeachment o non fecero propria la leggenda della “vittoria rubata”. Leggenda alla quale, sondaggi alla mano, crede un’ampia maggioranza di elettori repubblicani. Un altro dei pesantissimi lasciti tossici di 4 anni di Trump
  • Entro un quadro di bassissima volatilità, indicativo appunto del livello di polarizzazione del paese, il tasso di approvazione di Biden continua lentamente a scivolare e sta ora sotto il 51/52%. Nulla di comparabile a Trump, che oltre il 45/46% non è mai andato, ma comunque una piccola ragione aggiuntiva di preoccupazione
  • Quella grande è ovviamente rappresentata dal voto di mid-term dell’anno prossimo. Tutto può accadere, ci mancherebbe, ma è molto, molto difficile che i democratici riescano a mantenere il controllo della Camera, dove hanno una maggioranza di 5 seggi e numerosi rappresentanti democratici hanno già annunciato che non si ricandideranno (e lo storico ci dice che nel XX/XXI secolo solo nel 1934 e nel 2002 – in condizioni peraltro molto specifiche – il partito di un Presidente neoletto non ha subito una sconfitta elettorale, talora molto pesante al primo mid-term). Al Senato la situazione è più favorevole per i democratici, che dei 34 seggi in ballo, 20 sono repubblicani e 14 democratici, e tra i 20 vi sono stati “toss-up’ come la Pennsylvania e la North Carolina. Ma ci sono seggi difficili da difendere per i democratici – come Arizona e Georgia – e in un voto “nazionalizzato”, naturale in tempi di polarizzazione, il domino diventa spesso difficile da contenere (e, appunto, per far saltare la maggioranza basta perdere un solo seggio)
  • Con Trump difficilmente i repubblicani possono avere un futuro e il tracollo repubblicano nelle aree metropolitane, dove non sono quasi mai competitivi, o nelle zone più dinamiche – la “dynamism divide” – ce lo mostra molto bene. Fa impressione pensare che a NY, dove in fondo Giuliani e Bloomberg vincevano pochi anni fa, ora le vere elezioni siano le primarie democratiche (che Bloomberg sia diventato democratico e Giuliani sia andato fuori di testa ci dà una cifra della polarizzazione …). Ma senza Trump rischiano appunto di non avere un presente, a partire dal voto 2022 nel quale peserà, come sempre in un midterm, la capacità di mobilitare e galvanizzare il proprio elettorato (come Trump ha dimostrato di saper fare). Magari facendo leva su quelle “guerre culturali” alle quali un certo pezzo di mondo democratico presta, talora molto stupidamente, il fianco