Mario Del Pero

No, non siamo nel 1985

Non, non è stata la replica dei vertici USA-URSS di Ginevra (1985) o di Reykjavik (1986). Perché Putin e Biden non sono Gorbachev e Reagan; perché quel dialogo, e gli accordi che esso riusci a generare, contribuirono davvero a cambiare il corso della storia; perché, soprattutto, quella tra Russia e Stati Uniti non è una nuova Guerra Fredda. Troppo debole questa Russia per poter ambire al ruolo di competitore della superpotenza statunitense; troppo focalizzati sulla Cina e la sua sfida, gli Stati Uniti, per poter aprire un vero fronte di tensione con Mosca.

E però di vertice importante si è trattato. Per quel che ci dice sulle relazioni internazionali oggi; e per il valore simbolico dell’attenta coreografia che lo ha accompagnato. Sia Biden sia Putin hanno cercato di capitalizzarvi politicamente, consapevoli entrami che il rapporto tra i due paesi è solo tassello di una partita più complessa e globale, nei cui molteplici dossier la Russia non di rado svolge un ruolo periferico.

Per il presidente russo d’importante riconoscimento si è in fondo trattato. Ricoscimento della sua importanza e del suo ruolo così come – dato importante – di una sovranità russa che Washington ha spesso contestato nel dopo Guerra Fredda, in nome dell’integrazione capitalistica, della promozione della democrazia o della difesa dei diritti umani. A Biden il vertice ha invece offerto l’opportunità di parlare il linguaggio di un internazionalismo concreto e realista che, sondaggi e scelte elettorali alla mano, sembra oggi piacere all’elettorato americano. Ha riaffermato l’impegno statunitense sul tema dei diritti umani; ma ancora una volta ha cercato di mettere in asse questo riferimento a ideali e principi universali, che gli Usa sarebbero pronti a difendere e promuovere, con la sottolineatura della necessità di agire pragmaticamente, in funzione di una stabilizzazione del quadro europeo che gli Usa auspicano e per la quale c’è bisogno della Russia.

Entrambi i Presidenti hanno usato i riflettori per una propaganda che, nel caso di Putin, si è espressa in forme quasi surreali quando ha presentato l’assalto al Congresso del 6 gennaio come una normale forma di protesta politica e l’azione prese contro alcuni dei manifestanti una forma di persecuzione politica. Quel passaggio così come la denuncia dei disordini provocati dalle manifestazioni di Black Lives Matter ci mostra chiaramente come Putin non intenda rinunciare a presentarsi come punto di riferimento di una proposta politica sovranista paradossalmente sovranazionale: di un’internazionale del sovranismo che ha nel Presidente russo il suo punto di riferimento ideale e, talora, materiale.

E però questa propaganda, pacata nei toni ma – a osservarla bene – sovraccarica nei contenuti si accompagna con la chiara volontà di evitare ulteriori escalation, riportare la competizione entro i binari della moderazione e della prevedibilità, rendendola meno volatile e rischiosa. Le aperture ci sono state – soprattutto da parte statunitense, ad esempio con il congelamento delle sanzioni alla compagnia responsabile della costruzione del controverso oleodotto Nord Stream 2 che collega Germania e Russia – e la volontà reciproca di rilanciare il tavolo negoziale sulle armi nucleari potrebbe essere propedeutico a stemperare le tensioni e aprire un dialogo di più ampio respiro. Che gli Usa vogliono anche perché considerano la Cina il vero rivale su cui concentrare risorse e attenzioni; e di cui la Russia ha bisogno, non ultimo per ridurre sanzioni che colpiscono un’economia di suo fragile e poco competitiva. Dialogo però che avrà bisogno di gesti concreti, con Mosca chiamata a moderare le sue cyberwars e suoi hacker e Washington a ingerire meno e sollevare almeno qualcuno dei provvedimenti punitivi attuati in questi anni. E dialogo che la propaganda cui abbiamo assistito anche ieri difficilmente aiuta.

Il Giornale di Brescia, 17 giugno 2021

Il viaggio europeo di Biden

Trump aveva scelto l’Arabia Saudita per il suo primo viaggio all’estero ; Obama il Canada ; George Bush Jr. il Messico. Che Biden abbia invece optato per l’Europa è indicativo del valore che l’attuale Presidente degli Stati Uniti assegna alle relazioni euro-statunitensi. Biden e il suo segretario di Stato Anthony Blinken non fanno mistero di voler rimettere la relazione transatlantica al centro dell’azione internazionale di Washington: di farne il perno di un rinnovato impegno, internazionalista e multilateralista, degli Stati Uniti. Questo atlantismo bideniano ha matrici tanto ideologiche quanto politiche. Vi è il convincimento, frequentemente ribadito dal Presidente, che Stati Uniti ed Europa siano intestricabilmente legati da valori, principi e interessi. Che la democrazia e il mercato costituiscano comuni denominatori ineludibili: ponti – ideali e materiali – su un Atlantico fattosi sempre più stretto e unificante. E si ritiene che nel 2021 gli obiettivi primari degli Usa siano perseguibili solo tramite il rilancio della relazione transatlantica e l’adesione dell’Europa alla visione statunitense di come difendere e aggiornare un ordine globale che gli Usa ancora dominano.

Ma in cosa consiste questa visione e in che modo Washington ritiene che l’Europa debba contribuirvi?

In estrema sintesi, possiamo dire che l’amministrazione Biden ambisce a preservare e rafforzare la leadership mondiale degli Stati Uniti rilanciando l’efficienza e competitività del loro modello, aggiornando le strutture e le regole della governance globale, e contenendo quegli attori, come la Cina, che tali regole applicano selettivamente e sfruttano con abilità e spregiudicatezza.

Sul primo aspetto si sono concentrate finora molte delle azioni di Biden, a partire dalla proposta di un programma ambizioso e immensamente costoso d’investimenti infrastrutturali che sta però incontrando molte resistenze al Congresso. Programma, questo, importante anche per gli europei, visto che lo stimolo economico che esso garantirebbe avrebbe effetti inevitabili anche per paesi, come i nostri, per i quali il traino del mercato statunitense rimane spesso fondamentale.

Sul secondo punto – aggiornare e ripensare norme e istituzioni dell’ordine mondiale – gli elementi di convergenza sono a loro volta numerosi. La collaborazione tra Stati Uniti ed Europa continua a essere decisiva in alcune organizzazioni fondamentali, come l’ONU o il WTO. Vi sono inoltre dossier – quali l’ambiente o la stessa fiscalità – dove le posizioni sono simili e la possibilità quindi di una comune azione euro-americana molto forte. Intendiamoci, le differenze rimangono e proprio la partita dei vaccini – e il forte unilateralismo di un’America che non ha esitato a discriminare gli europei pur di mettersi prima in sicurezza – ci mostra lo scarto che spesso esiste tra la retorica dell’atlantismo e le sue pratiche.

La grande questione, il vero “elefante nella stanza”, è però la Cina. Negli Usa vi è ormai un ampio consenso bipartisan sulla necessità di promuovere una politica più aggressiva verso Pechino, per limitarne l’influenza e conterne eventuali tentazioni espansionistiche. Una politica che passa per il rilancio della competitività e autosufficienza dell’industria statunitense, come si afferma anche in un disegno di legge che il Senato Usa ha appena approvato a larghissima maggioranza. E che passa attraverso un’azione concertata con gli alleati, finalizzata non solo a limitare gli investimenti cinesi all’estero (cosa che l’Europa sta facendo già da anni), ma anche a cercare di ridurre il peso della Cina nella catene transnazionali di produzione e le condizionalità che ne possono derivare. Ed è presumibilmente su questo che si concentreranno le discussioni durante questo primo viaggio di Biden Presidente e si determinerà l’effettiva praticabilità del nuovo atlantismo statunitense.

Il Giornale di Brescia, 12 luglio 2021

Di Sisifo, della cancel/bufala culture e dei classici razzisti

 

Eh sì, è davvero sforzo sisifeo (o se preferite da carta degli imprevisti che ti rispedisce al via senza prendere le 20mila lire). Un po’ perché la complessità – e, anche, l’opacità che l’accompagna – non va di moda di questi tempi bi-cromatici; un po’ perché anche in area liberal-progressita, chiamiamola così per comodità, va di moda (e fa sentiri molto intelligenti, moderni e aperti) vedere a ogni angolo gli eccessi del politically correct e della “wokeness”; molto, moltissimo, perché a destra su questo si è montata un’efficace offensiva, sfruttando con abilità l’utile idiozia di tanti apostoli woke e mettendola al disegno di un bella retorica neo-reazionaria.

L’ultima riguarda l’università di Princeton. Che – ci si dice – nella furia iconoclasta contro i classici “razzisti” ora toglie l’insegnamento del greco antico e del latino. Allora – e posto che come tutte queste riforme della didattica – anche questa di Princeton problemi e perplessità ne pone:

 

 

  • Viene tolto il prerequisito per l’ammissione o il completamento del primo livello di studi (e vengono attivati dei corsi specifici – sorta di recupero formativo, insomma – per chi voglia essere ammesso a master/dottorato). Decisione problematica, ci mancherebbe, invocata da alcuni classicisti molto radical come Padilla Peralta, frutto di pressioni degli studenti e, anche se non soprattutto, della volontà di aprire e democratizzare l’accesso agli studi classici. Perché negli Usa le high school che offrono studi di greco e latino sono poche/pochissilme (per lo più prep school di elite). E quindi piccolo, e calante, è il pool di studenti che possono poi studiare classics all’università, soprattutto se ci sono barriere di prerequisiti come quelle di Princeton

 

  • Doloso o colposo, figlio di ingoranza, stupidità o malafede, il cortocircuito più assurdo nella versione italiana di questa storia è che l’attacco ai classici deriverebbe dal loro considerarli “razzisti” o “suprematisti” (e in fondo per la gran parte di maschi bianchi e occidentali staremmo parlando, no? ….). Chi, come Padilla Peralta, la giustifica come risposta necessaria al “razzismo sistemico” tutt’altra cosa però intende. Nella fattispecie, quando si parla di razzismo sistemico e della necessità di combatterlo, s’intende dire che lo studente bravo e appassionato di classici che viene da una high school pubblica dell’Alabama semplicemente non ha le possibilità del Kavanaugh di turno che ha studiato in una prep school super-elitaria di DC. In realtà, se la leggiamo in filigrana, la decisione di Princeton è figlia non solo della volontà di ripensare il canone storiografico, ma anche di difendere e promuovere i classici, di loro peraltro in crisi come campo di studi

 

Che resta? La fatica di Sisifo appunto, che a giudicare dalla diffusione e popolarità di certe sciocchezze ti chiedi ovviamente cosa te lo faccia fare….

L’INTERDIPENDENZA DEI PETRODOLLARI

I petrodollari trasformarono il sistema internazionale e il modello di egemonia statunitense. Un baratto – quello tra Usa e paesi produttori, Arabia Saudita su tutti – e una trasformazione che David Wight racconta in un bel libro di prossima uscita (https://www.cornellpress.cornell.edu/book/9781501715723/oil-money/#bookTabs=1).

Tra le tante dimensioni e conseguenze della “petrodollar interdependence” degli anni Settanta vi furono anche l’attivazione di progetti di sostegno allo sviluppo economico nei quali fondamentale doveva essere il trasferimento, dagli Usa ai paesi produttori, non solo di tecnologia e beni di consumo durevoli, ma anche di competenze e conoscenze. Da acquisirsi, ovviamente, aprendo le porte delle università statunitensi a studenti provenienti da questi paesi. Alla fine degli anni Settanta, gli iraniani costituivano, per distacco, il contingente più grande di studenti stranieri nel sistema universitario statunitense; quelli sauditi erano cresciuti di 5 volte in pochi anni (fig. 1 e 2). Come spesso capita in questi casi, vi furono diversi cortocircuiti: l’ambiente liberal e intellettualmente aperto dei campus americani,  offrì a molti giovani iraniani uno spazio di libertà dove il dissenso e la critica al regime dello Shah, o all’alleanza Iran-Usa, poteva esprimersi e diffondersi apertamente (ne parla Matthew Shannon in un altro bel libro uscito qualche anno fa sempre per Cornell: https://www.cornellpress.cornell.edu/book/9781501713132/losing-hearts-and-minds/#bookTabs=1). A monte agiva ovviamente la tensione, che abbiamo rivisto in tempi recenti con la Cina, tra gli obiettivi politici  di una diplomazia culturale e dell’istruzione superiore promossa da (e messa a servizio di) un regime autoritario come quello dello Shah e gli effetti democratici della mobilità studentesca e di tutto quello che l’accompagna. Più che modernizzare (e, in parte, americanizzare) l’Iran, questi scambi finirono quindi per alimentare ostilità al regime e alle logiche geopolitiche che inducevano Washington a sostenerlo. A destra, soprattutto tra i neocon, non si guardava peraltro con grande simpatia a queste politiche: vuoi perché le crociate modernizzatrici, in larga parte screditate dai fallimenti in America Latina e nel sudest asiatico, sembravano riflettere una filosofia liberal/progressista di cui non si condividevano gli assunti e le premesse (l’idea cioè che le matrici del radicalismo politico fossero sociali ed economiche e su quella variabile si dovesse intervenire); vuoi perché un certo “orientalismo” induceva a ritenere che questi paesi non fossero banalmente pronti per la modernità e che un impegno in tal senso li avrebbe anzi destabilizzati (lo stesso Kissinger dopo il primo choc petrolifero lamentò il fatto che “il mondo civilizzato” fosse “tenuto in ostaggio da otto milioni di selvaggi”); vuoi, infine, perché modernizzare (e, nel processo, armare fino ai denti) Iran e Arabia Saudita aggiungeva ulteriori pericoli a un alleato, Israele, fattosi sempre più speciale, soprattutto dopo il 1967. A dare voce a tutto ciò – a pregiudizi orientalisti, ostilità a modelli liberal di modernizzazione, e preoccupazione per la sicurezza d’Israele – pensò bene un giovane Edward Luttwak, fresco di PhD alla Johns Hopkins, che in un articolo pubblicato con lo pseudonimo Miles Ignotus e apparso su Harper’s Magazine nel marzo nel 1975, sostenne la necessità che gli Usa occupassero militarmente l’Arabia Saudita, assumessero il controllo dei suoi pozzi petroliferi e riportassero il prezzo del petrolio a livelli più ragionevoli, onde evitare di trasformare il mondo dei paesi produttori di petrolio in uno “slum autoritario”, dove i consumatori finanziavano i “jet esecutivi degli sceicchi e i caccia-bombardieri dei dittatori” (l’allora ambasciatore Usa in Arabia Saudita, James Atkins, definì l’articolo di Luttwak come il prodotto di una “mente malata”….)

 

 

 

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Sull’invisibilità di Kamala Harris

Su Kamala Harris le aspettative erano altissime. Perché è la prima donna ad accedere alla vicepresidenza; e perchè fa da spalla a un Presidente che per carattere e, ancor più, anagrafe non sembrava destinato a passare molto tempo sotto i riflettori. E però, in questi primi mesi di Presidenza Biden la Harris si è vista decisamente meno di quanto non ci si aspettasse. Ha avuto – per scelta, necessità e, forse, imposizione – un ruolo caratterizzato da una bassa, talora bassissima visibilità pubblica. Come si spiega e cosa lo giustifica? La risposta dipende tanto dai compiti istituzionali del vice-presidente quanto dalla natura di questa Presidenza e del rapporto specifico tra Biden e Harris.

La vice-presidenza, innanzitutto. Ruolo in una certa misura marginale e quasi decorativo se ci atteniamo al testo costituzionale, nel quale la funzione fondamentale del vice-presidente, oltre a quello di subentrare al capo dell’Esecutivo laddove vi fosse una vacanza presidenziale, è di presiedere il Senato. Ovvero ruolo che solo in tempi recenti – pensiamo alla quasi presidenza “ombra” del vice di Bush Jr., Dick Cheney – ha maturato compiti e responsabilità maggiori. Il primo vice-Presidente degli Usa, John Adams, dichiarò di sentirsi quasi in “prigione” a causa della sua posizione del tutto “insignificante”. Poco più di un secolo più tardi, Theodore Roosevelt affermò di preferire qualsiasi professione, persino il “professore di storia”, a quella di vice-presidente. Quando gli fu chiesto quali fossero le sue responsabilità, Nelson Rockfeller – il vice di Gerald Ford dal 1974 al 1977 che, diversamente da Adams e Theodore Roosevelt, non sarebbe mai divenuto Presidente – rispose sarcasticamente “andare ai funerali e ai terremoti”.

I vice-presidenti possono essere investiti di funzioni specifiche e, è questo il caso anche della Harris, avere una responsabilità diretta su alcuni dossier. Il loro è però un ruolo marginale o comunque da svolgersi senza oscurare il Presidente che debbono servire. A maggior ragione se il Presidente è di suo fragile e spesso accusato dai suoi avversari di non essere pienamente in controllo, come nel caso di Joe Biden. Accusa, questa, che serve per sfruttare una oggettiva vulnerabilità di Biden, Presidente anziano e indubbiamente affaticato; e che – nella figura di una donna di colore, ex procuratrice e senatrice come la Harris – offre un bersaglio quasi ideale alla retorica spesso grossolana di una destra estrema nella quale anti-politica, razzismo e misoginia, talora esplicitamente più spesso surrettiziamente, tendono a convergere. Non è un caso che i sondaggi indichino dei tassi di approvazione dell’operato della Harris considerevolmente più bassi, circa 10 punti percentuali, rispetto a quelli di Biden. Su questo la vice-presidente è chiamata a muoversi su un crinale davvero sottile, facendo da parafulmine al Presidente senza però attirare eccessive attenzioni su di sé. Un compito che la Harris sta cercando ovviamente di svolgere, in un contesto peraltro in cui la sua funzione costituzionale primaria – presiedere il Senato – risulta particolarmente importante, visto che la parità tra i due partiti alla Camera Alta la obbliga, e di certo la obbligherà, a essere spesso presente in aula per rompere il pareggio.

La Harris sta insomma cercando di lasciare il più possibile il palcoscenico a Biden, evitando al contempo di dare l’impressione di prepararsi a una successione tutt’altro che irrealistica nel 2024. Ma lo fa anche accettando, non sappiamo quanto volentieri, di farsi carico di dossier spinosissimi, su tutti quella crisi dei migranti al confine meridionale che ha costituito finora una delle note dolenti delle politiche di Biden e la cui task force istituita il marzo scorso non a caso è oggi guidata dalla vice-presidente.

Il Giornale di Brescia, 24 maggio 2021

Di Biden e di quanto sta accadendo a Gaza e in Israele

Nella gerarchia di priorità della politica estera di Joe Biden, l’intrattabile questione israelo-palestinese stava probabilmente nelle ultime posizioni. Perché l’esperienza insegna che per i presidenti americani vi è stato quasi sempre un baratto negativo tra il capitale politico investito e i risultati ottenuti; perché le tante questioni sul campo sembrano essersi incancrenite al punto tale da risultare ormai ingestibili; perché un impegno attivo implicherebbe un reiconvolgimento in quel Medio Oriente dal quale l’amministrazione si vorrebbe almeno in parte disimpegnare.

Nessun inviato speciale e nessun ambizioso piano, insomma. Anzi, una esplicita subordinazione del dossier israelo-palestinese a una politica mediorientale che nelle intenzioni avrebbe dovuto permettere di modificare il contesto regionale e guadagnare tempo vitale. La linea della fermezza assunta verso l’Arabia Saudita e della mano tesa, ma con non poche condizionalità, all’Iran doveva servire per moderare entrambi i contendenti, reintegrare gradualmente Teheran nel gioco diplomatico mediorientale e dare finalmente risposta a una tragedia umanitaria, quella yemenita, tanto drammatica quanto dimenticata. La stabilizzazione che ne sarebbe conseguita avrebbe potuto beneficiare della stessa diplomazia trumpiana, quegli accordi di Abramo tra Israele e alcuni paesi del Golfo che, nati in funzione anti-iraniana, avrebbero costituito il tassello di un’operazione più ampia. Accompagnata da una graduale ripresa dei rapporti tra Stati Uniti e Autorità Nazionale Palestinese e da un nuovo impegno economico statunitense (Biden ha annunciato poche settimane fa il ripristino di programmi di aiuti ai palestinesi di circa 250 milioni di dollari, che Trump aveva cancellato), questa stabilizzazione avrebbe infine dovuto permettere di rilanciare un impegno diretto sul conflitto arabo-israeliano. Che negli auspici sarebbe stato facilitato anche dall’uscita di scena di Benjamin Netanyahu e dalla riattivazione in Israele di una dialettica politica capace di produrre maggioranze di governo meno estreme e irresponsabili di quelle degli ultimi anni.

Un programma molto futuribile e non particolarmente realistico, quello di Biden. Figlio del convincimento che di questione intrattabile appunto si tratta. Che ad affrontarla quasi sempre ci si scotta e si finisce per pagare un dazio politico, come ben scoprì Obama, il quale non fece certo mancare il tradizionale sostegno statunitense a Israele, ma fu comunque pesantemente attaccatto ed esposto anche all’umiliazione di vedere il primo ministro di un altro paese, Netanyahu appunto, denunciare aspramente il Presidente degli Usa di fronte al Congresso. Il rapporto con Israele divide peraltro gli Usa e gli stessi democratici statunitensi, dove le leve più giovani appaiono sempre meno inclini a sostenere la “relazione speciale” con Israele e invocano invece un cambiamento di rotta, se necessario riducendo il massiccio trasferimento annuale di alta tecnologia militare a Tel Aviv. Secondo i sondaggi Gallup, per esempio, laddove le preferenze degli elettori repubblicani vanno 80 a 10 a Israele, esse sono sostanzialmente in pareggio (43 a 38) tra gli elettori democratici, una maggioranza dei quali (circa 2 a 1) ritiene che per giungere a una qualche soluzione gli Usa debbano oggi esercitare una maggiore pressione su Israele e non sui palestinesi.

Insomma, Biden avrebbe sperato di poter guardare altrove e attendere tempi migliori. Ma se è vero che la politica internazionale raramente ti permette di farlo, questo vale ancor più per la questione israelo-palestinese. La reazione del Presidente è stata quella convenzionale: pieno sostegno a Israele; denuncia degli attacchi di Hamas e “altri gruppi terroristici”;  invito a rispettare il pluralismo religioso di Gerusalemme, “città di pace”. Poco, troppo poco, sia per la destra repubblicana, che grida al tradimento dell’alleato israeliano, sia per la sinistra democratica, che invoca un impegno più deciso e una maggior fermezza nei confronti di Netanyahu.

Il Giornale di Brescia, 14 maggio 2021

Di Biancaneve e dell’utile idiozia

No, il SFGate – gemello web del “San Francisco Chronicle” – non è il giornaletto locale online che leggono solo 4 gatti (il suo cartoonist una decina di anni fa ha vinto pure il Pulitzer). Ma nemmeno è un giornale capace di generare riverberi significativi fuori dalla Bay Area e si abbina peraltro a un quotidiano che è stato massacrato come pochi altri dalla crisi della carta stampata, finendo addirittura per chiudere la sua leggendaria redazione di DC (dai numeri che trovo, il Chronicle oggi non è nemmeno tra i venti quotidiani più letti negli Usa e sta pure dietro storici quotidiani “partisan” come l’Arizona Republic e il San Diego UT; fatte tutte le tare del caso, è più o meno come i nostri Gazzettino o Nazione, mettiamola così)…

E no, le due autrici della (bella) sciocchezza sul bacio non consensuale del Principe e Biancaneve non sono proprio due sophomores della scuola in giornalismo di una cattiva università for profit. Ma nemmeno sono due influenti commentatrici: una si occupa del mondo Disney per il SFGate e l’altra è la managing editor, che scrive – da quanto vedo – praticamente tre pezzi al giorno solo, e ovviamente, su questioni “friscane”.

E no, infine, diversamente dalla storiaccia tuttta italian-italiota della Howard University, questa è girata un po’ più sui media non italiani, statunitensi e non, Francia inclusa, anche se, come sempre ormai in questi casi, da noi gli isterismi sono stati assai maggiori e uno dei maggiori e più influenti giornalisti italiani è arrivato a paragonare la sciocchezza del bacio, e la contestuale caricatura (molto reazionaria) di questa supposta “cancel culture”, al rogo nazista dei libri.

Cosa ci resta quindi di questa storia bizzarra e, in una certa misura, non poco triste. Tre cose, credo. La prima è il disastro del sistema dell’informazione odierno, in Italia mi par di poter dire più che altrove. Poco o nullo controllo dei fatti e delle fonti; propensione modaiola a buttarsi sull’ultima controversia di nullo conto e significato per trasformare questo nulla in oggetto di polemiche esasperate e divisive; incredibile (per quanto mi riguarda) tendenza a cavalcare la rozza emotività dei social o addirittura a cercare lì le fonti a cui attingere. Nel contesto attuale, straordinario e spaventevole per diversi motivi, al centro della discussione mediatica troviamo il commento scemo di due giornaliste sconosciute su Biancaneve e il Principe.

E questo ci porta al secondo punto: questo accade perché quel commento scemo offre il destro a un reazionarismo culturale e politico che altro non attende. Lo vediamo bene negli Usa, dove di fronte alla iniziale popolarità di Biden e delle sue politiche (di quelle proposte e per il momento non ancora realizzate, intendiamoci) da destra si risponde rilanciando  “guerre culturali” che polarizzano, galvanizzano e occultano (i veri problemi; i veri contenuti). Al salario minimo o all’alta velocità si risponde frequentemente col Dr. Seuss o Biancaneve, insomma.

Lo si fa, terzo e ultimo punto, perché qualcuno permette di farlo. Carville potrà stare simpatico o meno (a me non lo è mai stato), ma ha mille e una ragione quando dice che una certa “wokeness” andata fuori asse e fuori logica rischia di diventare una pesantissima palla al piede per i progressisti (come peraltro indicano pure alcune prime disamine del voto 2020 e il sorprendente successo di Trump presso determinati segmenti del voto ispanico).  Il bacio non consensuale di Biancaneve sta dentro un’ansia di correttezza politica  che genera forme assurde di controllo del linguaggio e dei comportamenti (di “policing the language”, un’espressione che in inglese credo renda meglio). Un desiderio di asetticità/neutralità/correttezza che produce appunto questi grotteschi corto-circuiti; che nuoce in fondo alle cause da cui ha origine e in nome delle quali parla: crediamo veramente che fare una campagna sul bacio non consensuale di Biancaneve sia utile per la lotta contro le discriminazioni di genere e le violenze sessuali? Perché mentre si fanno le battaglie su questo, ci ritroviamo un Presidente che flirta con (e aizza il) suprematismo bianco e usa per quattro anni un linguaggio quello sì misogino, razzista, violento e, appunto, inaccettabilmente scorretto. L’articolo del SFGate diviene importante non per quel che dice o genera – per buona pace di Mentana & co, non ha lanciato nessuna campagna globale per una revisione del finale di Biancaneve e men che meno sta causando roghi di pellicole e dvd sul Golden Gate Bridge – ma per quel che simboleggia e rappresenta. Ovvero i surreali eccessi di un malinteso senso del politically, correct, da un lato; e il loro indebolire campagne e battaglie sacrosante e fondamentali. Un esempio sconcertante, temo avremmo detto un tempo, di utile, utilissima idiozia.

DI HOWARD, DEI CLASSICI E DELLA « BUFALA CULTURE”

Proviamoci un’ultima volta, che si stenta davvero a crederlo. La storica università nera di DC, Howard, decide di chiudere il dipartimento di studi classici. La spiegazione è semplice. Troppo pochi gli iscritti per un dipartimento che non riesce da tempo a offrire una laurea/un major; troppo forte la necessità di fissare delle priorità alla luce di un budget limitato che deve peraltro far fronte alle nuove emergenze provocate dalla pandemia (e infatti, nei documenti ufficiali della università si usa a più riprese l’orribile verbo “prioritize”). I corsi che il dipartimento offre, in particolare quelli introduttivi allo studio dei classici, non vengono cancellati, ci mancherebbe. Né vengono licenziati i docenti “tenured”, noi diremmo “incardinati” (altra sorte – come da copione – pare invece essere quella dei precari/”untenured). Corsi e docenti che vengono trasferiti nei dipartimenti affini di letteratura e filosofia. Decisione utilitaristica; di quelle che si vedono spesso in università; e che spesso, troppo spesso, colpiscono le discipline considerate meno “utili” e spendibili, quelle umanistiche su tutti.

Contro la decisione si mobilita un ampio fronte di studenti e intellettuali. Sul Washington Post il celebre, e radicale, intellettuale afroamericano Cornel West scrive, assieme a Jeremy Tate un durissimo editoriale, nel quale definisce la decisione di Howard una “catastrofe spirituale”. La denuncia di West e Tate è doppia.  Prendono di mira appunto l’approccio utilitaristico all’istruzione universitaria – si privilegia la “schooling” alla “education” dicono – per il quale le discipline umanistiche, e gli studi classici in particolare, sarebbero sempre più irrilevanti e inutilmente onerose. E attaccano la decisione come figlia di una contestazione di un canone tradizionale di studi classici che, affermano, andrebbe invece preservato (lo fanno con un’operazione peraltro non nuova, e per quanto mi riguarda assai efficace, usando Douglass e MLKing per legare inestricabilmente classici e black studies). Su questo secondo punto la polemica, implicita ma chiara, di West e Tate è con studiosi come Padilla Peralta di Princeton, che non vogliono “cancellare i classici”, come si afferma in certe caricature, ma invocano un ripensamento davvero radicale di un canone storiografico, affermano, costruito nel XIX e XX secolo e non adatto ai tempi.

Discussione importante, ma sulla base di tutte le fonti che abbiamo, assolutamente irrilevante rispetto alla scelta di Howard, giustificata invece da crude e banali esigenze di budget e, appunto, di “priorità”. Con un corto circuito mediatico-politico di cui non riesco a individuare la genesi e i diversi passaggi, in Italia le cause e matrici del processo che porta alla decisione di Howard vengono completamente stravolte. Dico in Italia; perché da una rapida verifica non mi pare che sia accaduto in Francia, Germania o Regno Unito (potrei sbagliarmi, ma non la si trova neanche sul Telegraph – che qualche settimana fa aveva lanciato la bufala del Mozart cancellato a Oxford). Sia come sia, Corriere, Messaggero, Huffington Post e tanti altri se ne escono con la scemenza (e la bufala) che Howard, università dei neri, cancellerebbe i classici perché sarebbe ormai passata l’idea che Cicerone, Omero & co altro non sarebbero che dei “suprematisti bianchi”. Il TG2 ci fa addirittura un servizio nel telegiornale della prima serata: ““Banditi Omero, Cicerone, Socrate e Platone, accusati di suprematismo,” tuona la giornalista (giornalista?) autrice del servizio. Molti dei boccaloni in servizio permanente sul web ci cascano senza pensarci un attimo, poco importa se siano di sinistra o di destra, che se si può parlare male di Usa e di università il fronte sembra farsi alquanto compatto.

Ma perché? Che gliene frega agli italiani di Howard, come chiede un amico sorpreso quanto e più di me (usa un altro verbo, ma il senso è quello …)?

Di Howard poco o nulla, ovviamente. Nella vicenda si mescolano invece diversi piani e fattori. Un po’ di sano, ancorché occultato, razzismo (i neri manco i classici sanno apprezzare…). Un po’ di sempreverde anti-americanismo (guarda come son messe le università statunitensi). Un po’ d’immancabile populismo anti-elitario, contro le università e i liberal. Molto, moltissimo reazionarismo, di chi vorrebbe magari che i curricula di studi fossero ancora fermi ai corsi di Western Civilization di Columbia del 1919. Si prende un piccolo pezzo di verità – una certa “wokeness” andata fuori giri, soprattutto nei campus universitari Usa, un problema effettivamente lo pone – lo si trasforma in una certezza onnicomprensiva che tutto spiega – la supposta tirannia della “cancel culture” – e il gioco è fatto. Il gioco della “bufala culture”, chiamiamola così. Da mettere al servizio di razzismo, anti-intellettualismo e reazione. Una “bufala culture” che  come abbiamo visto fin troppo bene in questi anni, pericolosa lo può essere davvero tanto

Cento giorni

I primi cento giorni di un’amministrazione appena insediata servono per comunicare un messaggio forte e per definire una cornice entro la quale si collocheranno le sue politiche. Per costruire una narrazione, insomma, e porre le condizioni per la realizzazione dei suoi pilastri. Nell’azione di governo vi è un’urgenza ostentata e necessaria. Si vuole dare un segnale forte di discontinuità; si opera con un occhio alla prima scadenza elettorale, quel mid-term che già nel novembre 2022 metterà alla prova le fragili maggioranze democratiche al Congresso; si deve agire rapidamente in risposta al terribile combinato disposto di emergenza sanitaria e crisi economica.

Biden lo sta facendo, ricorrendo massicciamente agli strumenti dei decreti esecutivi – ne ha già promulgati 40 – e utilizzando tutte le possibilità procedurali disponibili per far passare delle leggi in un Congresso spaccato a metà e dove la maggioranza democratica al Senato è garantita solo dal voto della Vice-Presidente Harris. Sintetizzando all’osso possiamo dire che queste misure si sono concentrate su cinque ambiti principali: la risposta al Covid; la ripresa economica; la lotta alla povertà e alla diseguaglianza; l’ambiente; la riaffermazione di una leadership globale degli Usa centrata sì sul multilateralismo, ma anche su una robusta azione di contenimento del loro principale rivale, la Cina.

Rispetto al Covid, si è lanciata una imponente campagna di vaccinazione, che ha portato a superare rapidamente gli obiettivi prefissati e che stride con la frustrante lentezza e farraginosità dell’azione europea. A oggi più della metà della popolazione adulta ha ricevuto almeno una dose di vaccino e il 37% (che sale al 68% per gli over-65) ha completato l’iter di vaccinazione. In parallelo, Biden ha lanciato una campagna pedagogica tutta centrata sull’importanza della prevenzione e sulla necessità di non abbassare la guardia.

Sul versante economico, sono stati lanciati programmi dalle dimensioni straordinarie: migliaia di miliardi di dollari destinati a stimolare investimenti e consumi, e ad aiutare quei pezzi di America maggiormente in difficoltà. Alcuni – come il primo stimulus di Biden – sono stati approvati di misura dal Congresso; altri, come l’ambiziosissimo piano d’investimenti infrastrutturali annunciato dal Presidente qualche settimana fa, devono ancora confrontarsi con il passaggio legislativo. L’obiettivo di alimentare la crescita, promuovere una redistribuzione (e una maggiore equità) e ammodernare il paese è però palese in tutti questi programmi.

Sul clima e l’ambiente, l’intreccio tra la dimensione interna e quella internazionale è evidente, e l’azione negli Usa è in larga misura propedeutica a una leadership mondiale che gli Usa oggi rivendicano con forza. L’approccio è multilaterale e cooperativo, in particolare con i partner europei, ma anche funzionale al rilancio dell’egemonia statunitense e alla riduzione dell’influenza della Cina, se necessario limitandone la partecipazione a catene globali di produzione nelle quali Pechino resta ancora centrale.

La narrazione di questi primi cento giorni si articola quindi attorno ad alcuni pilastri fondamentali: efficienza e trasparenza; crescita ed equità; multilateralismo e internazionalismo; contenimento della Cina. Centrale, in essi, è la rivendicazione di un ruolo attivo e forte del Pubblico: attore che non si limita a fissare le regole, ma definisce esplicitamente gli indirizzi di sviluppo del paese e i cui investimenti giocano quindi un ruolo cruciale. I problemi per la realizzazione dei piani di Biden sono tanti, a partire ovviamente dalla loro sostenibilità economica, e crisi almeno in parte inattese – come fu il Covid per Trump e come potrebbe essere una nuova emergenza migranti per Biden –potrebbero farli deragliare. La grande scommessa però sembra essere proprio questo cambiamento di paradigma: l’idea che sia tornato il tempo di uno stato federale forte e interventista, pronto a spendere e tassare.

Il Giornale di Brescia, 28 aprile 2021

DELLE SUPERLEGHE E DEGLI USA

Come alla quasi totalità dei miei contatti social, anche a me ‘sta storia della superlega fa discretamente vomitare, da qualsiasi parte la si giri. E vedi mai sia l’occasione buona per tornare a tifare Bologna, il bel giorno in cui ci si libererà finalmente di Mihailovic. Il parallelo con lo sport professionistico Usa fa poi acqua da tutte le parti. A prescindere dai suoi tanti aspetti deleteri – incluse squadre che cambiano città, come i Lakers nel 60 o, in tempi più recenti, gli storici Seattle Supersonics che muoiono con l’inganno e si riorganizzano a Oklahoma City – è un sistema affiancato dallo sport universitario, che ha mille aspetti problematici a sua volta (a partire dalla finzione del dilettantismo e lo sfruttamento degli atleti), ma dove nel basket una piccola università come Gonzaga può costruire un programma straordinario, dove Abilene Christian può eliminare Texas, Oral Roberts Ohio State e Loyola Illinos, e dove St Cloud State, Quinnipiac o alcuni vecchi programmi Ivy rimangono ancora competitivi nell’hockey. Insomma, dove non vi sono rendite oligopolistiche come quelle invocate da Agnelli & co.

Detto ciò, è altresì chiaro che ‘sta schifezza della Superlega un dito nella piaga lo mette. Che con la nuova Champions si è talmente ampliato il gap di risorse tra i pochi e i più, che i campionati nazionali sono diventati sempre meno seri e guardabili: terreno di contesa, quando va proprio bene, delle solite 2/3 squadre (Spagna e Inghilterra), proprietà esclusiva di una (Francia, Germania, Italia) sempre della stessa, sia essa quella più ricca (PSG), meglio organizzata (Bayern) o beneficiaria di privilegi non concessi agli altri, a partire della concessione sullo stadio, oltre che della patente inettitudine altrui (Juve). Campionati nazionali di 20 squadre con una calendario di 38 partite non hanno senso alcuno. Si riduca drasticamente il numero, portandolo a 12/14, si faccia in modo che un terzo se non la metà giochino anche in un parallelo campionato europeo, si preservi un sistema di promozioni e retrocessioni (per l’accesso a entrambi i campionati). E magari, visto che si guarda tanto agli Usa, si metta anche un bel salary cap (hai voglia a quel punto Cristiano Ronaldo) e si diano multe e sanzioni di quelle vere ad allenatori e dirigenti beceri che offrono un esempio indecoroso come quello dato da Conte e Agnelli qualche settimana fa