Mario Del Pero

IL PUNTO

IL PUNTO

  • Neera Tanden, che Biden aveva nominato a dirigere il potentissimo Office of Management and Budget (OMB), è costretta a rinunciare di fronte alla prospettiva concreta che la nomina non sia confermata al Senato (un senatore democratico, il solito Joe Manchin della West Virginia, aveva già annunciato il suo voto contrario; nessun repubblicano era disposto a votarla). I motivi di questo importante fallimento – l’OMB è l’agenzia federale preposta a verificare la fattibilità economica delle varie voci di spesa e può condizionare o addirittura bloccare una determinata azione di governo – sono diversi: Tanden (che dirigeva la think tank liberal – e non poco clintoniana – “Center for American Progress”) non ha competenze forti sulla materia di responsabilità dell’OMB; è una figura molto polarizzante; è stata vittima del solito delirio da social media, utilizzando come una clava twitter nell’offendere frequentemente repubblicani e sandersiani. Due però sono i dati inequivoci: il primo è che si tratta di una sconfitta, forse la prima, per l’amministrazione Biden che ha compiuto un evidente errore in questa nomina; il secondo è che la polarizzazione rimane altissima e il voto di novembre, con un Congresso così diviso, le ha dato un plastico volto istituzionale
  • Tutto ciò lo vediamo benissimo nella discussione congressuale sulla proposta di stimolo all’economia/lotta al Covid di Biden. Quasi 2mila miliardi di dollari, distribuiti su varie voci (alcune delle quali, va detto, un bel po’ demagogiche). Mancando i sessanta voti necessari al Senato per superare l’ostruzionismo, si è scelta la strada – un po’ da bucaneria parlamentare – della “reconciliation”, che può essere usata solo su particolari pezzi di legislazione (relative a spese e tasse) e una volta sola per ogni anno fiscale. Ciò ha portato all’immediata rimozione dal disegno onnicomprensivo presentato dai democratici di uno dei suoi pilastri: l’aumento graduale del salario minimo per arrivare ai 15 dollari all’ora (il “parliamentarian del Senato – il funzionario responsabile per la corretta applicazione delle procedure e delle regole della Camera Alta – ha deliberato che il salario minimo non può essere incluso nel pacchetto proposto da Biden). Contro un aumento simile (il SM federale è fermo da tempo a 7.25 all’ora) si erano peraltro già schierati due senatori democratici moderati: l’immancabile Manchin e la senatrice dell’Arizona Kyrsten Sinema. E alla Camera lo stimulus, inclusivo del SM, è passato davvero di misura, 219 a 212, senza un singolo voto repubblicano e con due voti democratici contrari, nonostante la forte popolarità del piano nel paese, anche presso gli elettori repubblicani.
  • Nel mentre Biden continua a promulgare ordini esecutivi come se piovesse, con una media di molto a quella dei suoi predecessori (anche se calerà inevitabilmente col tempo)

Tutto ciò c’indica chiaramente quanto complesso sia governare in tempi di polarizzazione e quanto compatti siano oggi i repubblicani nel seguire una linea ostruzionistica simile per certi aspetti a quella del primo biennio obamiano. Certo, i tempi sono diversi e opporsi a misure popolari (e a un Presidente per il momento molto popolare o, meglio, non molto impopolare) potrebbe danneggiare i repubblicani; ma anche Obama e le sue proposte erano inizialmente popolari, a volte questo lo si dimentica. Detto ciò, a me torna in mente la famosa giornalista televisiva che spiegava con molta sicumera come Biden avrebbe risolto il problema della Corte Suprema facendo un rapido “court packing” e si risentiva non poco con il sottoscritto quando cercavo di spiegare che era, come dire, “un po’ più complicata”…

McConnell vs.Trump

“Un politicante rigido e cupo”, rappresentante di quella palude washingtoniana che lui si era ripromesso di ripulire e con il quale il partito repubblicano è inevitabilmente destinato alla sconfitta. Così Donald Trump – interrompendo alcune settimane di silenzio – ha apostrofato il leader repubblicano al Senato e uomo forte del partito al Congresso, Mitch McConnell. McConnell che non aveva votato a favore dell’impeachment di Trump, ma che in un durissimo intervento si era premurato di rendere chiaro il suo convincimento che l’ex Presidente fosse responsabile “materialmente e moralmente” per l’assalto al Congresso del 6 gennaio scorso e i cinque morti che esso aveva causato.

Uno scontro all’arma bianca, quello tra McConnell e Trump, che molto ci dice della condizione attuale del partito repubblicano e del suo possibile futuro. Ma uno scontro indicativo anche del dilemma esistenziale con il quale i repubblicani si trovano oggi a fare i conti. Un dilemma riassumibile con uno slogan: che con Trump rischiano davvero di non avere un futuro, ma senza non hanno probabilmente un presente. Tutti i sondaggi di cui disponiamo ci indicano che la base repubblicana – quella attiva, mobilitata e che vota alle primarie del partito – è ancora in larga maggioranza con Trump. E però è una base, questa, minoritaria nel paese e in costante calo relativo. Trump la entusiasma e trascina alle urne, come dimostrano i quasi 75milioni di voti ottenuti alle ultime presidenziali. Ma fissa anche un perimetro rigido oltre il quale questo voto non è espandibile: il suo estremismo, la sua volgarità, il suo razzismo, le sue pulsioni eversive e anti-democratiche alienano molti elettori potenziali e galvanizzano la controparte.

McConnell lo sa e cerca di trovare una strada per ripuliregradualmente il partito dal trumpismo. Si muove però su di un crinale sottile, come anche la partita dell’impeachment ha evidenziato. E per farlo è costretto a spregiudicate acrobazie: fu lui, ancora leader di maggioranza al Senato, a impedire una rapida procedura d’impeachment nelle ultime due settimane di presidenza Trump, salvo poi giustificare il suo voto di assoluzione come imposto costituzionalmente dall’impossibilità di procedere nei confronti di un Presidente che ha già terminato il suo mandato. A monte agisce una verità banale e sulla quale McConnell ovviamente tace: quella per la quale Trump è in realtà un Frankestein politico uscito dal laboratorio repubblicano e sul quale il partito ha poi perso il controllo. Evitando di denunciare i deliri cospirativi che a suo tempo presero di mira Obama, assumendo posizioni vieppiù radicali sull’immigrazione, flirtando con movimenti del suprematismo bianco, pezzi importanti del partito repubblicano hanno spianato la strada all’ascesa di Trump. Una volta eletto Presidente, hanno pensato di poterlo controllare e sfruttare per ottenere risultati politici da tempo ambiti, dalla riforma fiscale alle nomine di giudici conservatori alle corti federali, a partire da quella Suprema. Un patto faustiano, questo, che ha dato ai repubblicani molto di quel che volevano – a dispetto della retorica, Trump ha infatti governato secondo i canoni ortodossi del conservatorismo statunitese – ma che il voto del 2020, la sconcertante reazione del Presidente, e i suoi reiterati tentativi di far deragliare il processo costituzionale e la validazione del risultato elettorale hanno reso non più gestibile. E come la terribile vicenda del 6 gennaio si è premurata di ricordarci – con le più alte cariche dello Stato che evitavano per un nulla di essere linciate dalla folla – è chiaro come quella tra McConnell e Trump sia oggi una partita cruciale non solo per le sorti del partito repubblicano, ma anche per quelle della democrazia statunitense.

 

il Giornale di Brescia, 18.2.2021

IL PUNTO

 

  • Termina anche questo secondo impeachment di Trump. E termina con una seconda assoluzione, ma anche con il voto più bipartisan nella storia degli impeachment, che ai dieci repubblicani che hanno votato a favore alla Camera si aggiungono 7 senatori, tra i quali ai soliti sospetti (Collins, Murkowski, Sasse, Romney, Toomey) si aggiungono conservatori impeccabili come il senatore della Louisiana Bill Cassidy, inorriditi di fronte a quanto hanno visto e ascoltato in questi giorni oltre che da una difesa legale, quello dell’improvvisato e improbabile team di Trump, a dir poco imbarazzante soprattutto nell’intervento del primo giorno di Bruce Castor (quei momenti in cui la satira muore, che la realtà è talmente surreale da non permetterne appunto caricature e derisioni)

 

  • Quello che abbiamo visto, si diceva. I deputati democratici che hanno condotto l’accusa hanno mostrato video inediti dell’assalto al Congresso. Dai quali si capisce che ci sarebbe voluto davvero poco o nulla perché alcuni membri del Congresso non finissero linciati dalla folla. Il tutto con un Presidente che quella folla arringava e che, nonostante da più parti si chiedesse d’intervenire, nulla faceva per fermare i disordini.

 

 

  • Potranno i repubblicani liberarsi di Trump? Affrancarsi da un marchio che, tra le altre cose, elettoralmente rischia di rivelarsi davvero tossico? I sondaggi ci direbbero di no, che una parte preponderante del loro elettorato sembra essere ancora con l’ex Presidente. E questo spiega ovviamente molto del comportamento dei 43 senatori repubblicani che hanno votato contro l’impeachment. Ma il calcolo di McConnell & co pare essere evidente: ossia che tolto il megafono presidenziale l’ombra di Trump gradualmente scompaia, magari anche grazie alle inchieste giudiziarie e ai tanti guai finanziari che pendono sulla testa del Presidente.

 

  • I democratici portano a casa una vittoria o si tratta invece di una sconfitta? Difficile rispondere in modo chiaro. Hanno messo sulla difensiva i repubblicani, amplificato per quanto possibile le loro divisioni, esposto una volta di più la natura surrealmente eversiva della presidenza di Donald Trump. Ma non hanno portato a casa un risultato tangibile e, nella fretta dimostrata nella gestione dell’impeachment (rinunciando anche a chiamare dei testimoni) hanno dimostrato che le priorità oggi sono altre, su tutte ovviamente l’agenda di governo di Biden

 

  • Come ne esce la democrazia statunitense? Di nuovo, difficile offrire risposte nette. E però assolvere un Presidente che aizza una folla pronta a linciare il suo vice e gli altri vertici del Congresso (cosa sarebbe accaduto se la folla – e sappiamo c’è voluto poco – avesse potuto intercettare Pelosi, McConnell, Romney, Ocasio-Cortez?), che cerca in tutti i modi di far deragliare il processo costituzionale di ratifica del voto, che esercita pressioni indebite sulle autorità statali affinché modifichino il risultato elettorale, che alimenta e cavalca teorie complottistiche, beh qualche problema a questa democrazia lo comporta. Chiaro che di queste sofferenze della democrazia statunitense – alle quali concorrono diverse dinamiche (self-promotion qui: provo a riflettervi in un numero in uscita della “Civiltà delle Macchine”) – Trump sia stato il portato e non la causa; altrettanto chiaro che un presidente divisivo e anti-istituzionale fino all’eversione non poteva che acuirle ed esasperarle.

America is back

L’America è tornata, “America is back”: lo ha detto più volte Joe Biden incontrando i funzionari del dipartimento di Stato. L’intenzione evidente era di galvanizzare un mondo, quello della diplomazia statunitense, marginalizzato e non di rado umiliato da Donald Trump. Soprattutto, però, si voleva comunicare la volontà di riabbracciare una filosofia internazionalista e multilaterale; di rilanciare una leadership statunitense fondata primariamente sulla disponibilità a operare dentro la rete di organizzazioni internazionali e per il tramite del dialogo e del negoziato. Un messaggio, quello di Biden, destinato a due pubblici, interno e internazionale, come sempre quando parla il Presidente dell’attore egemone del sistema internazionale. E che questi due pubblici deve convincere. Cosa fattasi sempre più complessa, che la mobilitazione di quello interno è più facile da ottenersi per il tramite di una retorica nazionalista che non di rado aliena e allontana quello internazionale.

Due contesti, dentro e fuori gli Usa, che offrono delle opportunità alla politica estera di Biden, ma che pongono anche dei paletti che sarà difficile aggirare. Biden parte con un capitale di fiducia e consenso spendibile sulla scena internazionale, in particolare nelle relazioni con gli alleati europei. Può capitalizzare sulla immensa impopolarità del suo precedecessore per ottenere delle aperture di credito a cui inizialmente si aggiungerà il vantaggio di poter fare leva su alcuni dossier “facili” – clima ed emergenza sanitaria – rispetto ai quali pare esservi una evidente convergenza transatlantica e, potenzialmente, globale. Le prime iniziative non scontate sul Medio Oriente, a partire dalla decisione di bloccare il trasferimento di materiali militari usati dall’Arabia Saudita nella terribile guerra civile in Yemen, rischiano di causare tensioni non dissimili da quelle già sperimentate da Obama con alcuni alleati regionali. Inserite dentro un contesto più ampio – in cui si collocano i rapporti con l’Europa e quelli più complessi con Russia e Cina – potrebbero però anch’esse aiutare questo rilancio della leadership statunitense. Le stesse dure critiche alla Russia per l’affaire Navalny sono state temperate dalla volontà di far ripartire un confronto sul controllo degli armamenti, il vero tavolo negoziale tra Mosca e Washington, spesso propedeutico al raffreddamento delle tensioni e al rilancio del dialogo.

Due ombre, una interna e una esterna, si stagliano però su questa visione e sulla possibilità di realizzarla pienamente. L’ambizioso internazionalismo di Biden non viene a costo zero e l’esercizio della leadership può essere molto oneroso. Mediare e guidare vuol dire accettare compromessi e sacrifici. Dal commercio al clima, nuovi ambiziosi accordi internazionali imporranno delle concessioni a tutti gli attori coinvolti, Stati Uniti inclusi. Sacrifici, questi, che una larga parte d’America – scottata da guerre inutili e colpita, in alcuni pezzi dei suoi settori produttivi, dalle dinamiche d’integrazione globale degli ultimi decenni – non è più disposta a sopportare. Uno dei primi emblematici ordini esecutivi di Biden ha affermato l’obbligo per il governo federale di destinare laddove possibile le proprie commesse all’acquisto di beni prodotti negli Usa. Per quanto ancora precipuamente simbolica, questa logica del “buy American” c’indica le costrizioni con i quali Biden dovrà fare i conti nel cercare di rilanciare un approccio internazionalista. Approccio, peraltro, che è spesso già declinato in una logica competitiva con il rivale cinese. È questa la seconda ombra. Il multilateralismo sarà concepito e applicato per cercare di ridurre l’influenza della Cina, in particolare dentro le catene globali di produzione. Sarà cioè un multilateralismo parziale, selettivo e, potenzialmente, strumentale. Con tutti i rischi che ne conseguono e le concessioni che chi vi parteciperà, Europa in primis, sarà chiamato a offrire.

Il Giornale di Brescia, 11 febbraio 2021

Quer pasticciaccio brutto de Riad

Dopo un iniziale, sorprendente silenzio i media italiani hanno iniziato a interessarsi della vicenda alquanto problematica che coinvolge il nostro ex Premier, e attuale Presidente della Commissione Esteri del Senato, Matteo Renzi e la fondazione saudita “Future Investment Initiative” (FII). Sgomberiamo innanzitutto il campo da un primo equivoco sollevato dai difensori di Renzi. La FII non è una think tank tradizionale dove politici, imprenditori e studiosi si trovano per riflettere, produrre analisi, costruire relazioni. Ovvero non è solo o primariamente quello. Finanziata in larga parte dal fondo sovrano saudita, la FII è mezzo al servizio delle politiche e delle ambizioni di Riyad: strumento di diplomazia pubblica – per utilizzare la definizione più neutra possibile – attraverso cui migliorare l’immagine dell’Arabia Saudita nel mondo, costruire e rafforzare legami commerciali e diplomatici, lubrificare relazioni pre-esistenti, in particolare con attori statuali e realtà imprenditoriali europei e nord-americani.

Nel 2018 il simposio annuale della FII fu boicottato quasi da tutti, dopo il terribile omicidio nel consolato saudita d’Istanbul del giornalista e oppositore Jamal Khashoggi, di cui secondo la CIA e la gran parte degli apparati d’intelligence occidentali il mandante sarebbe il principe saudita Mohammed bin Salman, l’uomo forte del regime. Ma la perseveranza, soprattutto quando supportata da disponibilità infinita di petrodollari, quasi sempre paga e già nel 2019 tutto era rientrato nella norma, con il simposio annuale affollato di amministratori delegati, e nel quale vi erano anche alcune sessioni più politiche, con i presidenti d’India e Brasile, Narendra Modi e Jair Bolsonaro, e una tavola rotonda a cui partecipavano tre leader ritiratisi dalla scena politica – il britannico David Cameron, il francese François Fillon e l’australiano Kevin Rudd – e il nostro senatore Matteo Renzi. Che di lì a poco sarebbe stato nominato membro del Consiglio di Amministrazione, il “Board of Trustees”, della FII. Carica ben retribuita, da quanto sappiamo, come del resto ricco è il gettone di presenza agli eventi della FII.

Il resto è cronaca recente: Renzi che nel mezzo della crisi parte per Riyad e che rientra precipitosamente in Italia con un volo privato messo a dispozione dall’Arabia Saudita, non prima, però, di avere registrato un dialogo/intervista con il “grande Mohammed bin Salman”, come lo definisce il senatore fiorentino, che celebra anche il dinamismo e l’innovazione di un paese, l’Arabia Saudita, che  a suo dire potrebbe essere il centro di un “nuovo Rinascimento” globale.

Difficile non restare sbigottiti di fronte a tutto ciò. I problemi etici e politici, o meglio il loro inestricabile intreccio e i conflitti d’interesse che ne derivano, sono tali da lasciare quasi senza fiato. Un ex premier e senatore in carica si presta a fare da megafono della propaganda di un altro paese; lo fa, a quanto pare, ottenendo una lauta retribuzione; e lo fa per uno stato e un leader – l’Arabia Saudita e il principe Mohammed bin Salman – che sono sulla lista nera di tutte le organizzazioni per i diritti umani, che ne denunciano la repressione, costante e invariabilmente violenta, di qualsiasi forma di dissenso oltre che la responsabilità per il terribile conflitto yemenita. Non è un caso che ai simposi della FII partecipi un numero limitatissimo di politici europei ancora in attività, e chi lo faccia abbia quasi sempre ruoli istituzionali. E che nel consiglio d’amministrazione o negli altri boards dell’organizzazione non ve ne sia alcuno, con l’eccezione appunto del nostro ex premier. Che con un atteggiamento assai poco responsabile e molto spregiudicato ha inferto un colpo duro non solo alla reputazione sua personale, ma anche a quella del paese di cui è senatore.

Il Giornale di Brescia, 31 gennaio 2021

UPDATE

E così il capogruppo repubblicano alla Camera Kevin McCarthy, che aveva proposto inizialmente di approvare una mozione di censura di Trump per quanto accaduto il 6 gennaio accettando di denunciarne le responsabilità per l’assalto al Congresso, va contrito a Mar-a-Lago per incontrare l’ex Presidente. Una delle nuove star dei republicani – la deputata della Georgia, e adepta di Qanon, Marjorie Greene, una che sostiene che la terribile strage di bambini del 2012 nella scuola di Sandy Hook sia un’invenzione – viene scelta dalla leadership del partito per stare nella importante commissione “Labor and Education” (gesto la cui valenza simbolica è evidente). McConnell non riesce a trascinare altri repubblicani al Senato e l’impeachment di Trump (con la sua successiva interdizione a cariche elettive) si fa sempre meno probabile. Il Department of Homeland Security fa uscire un preoccupato rapporto sulla minaccia del terrorismo interno, ma nei sondaggi una larga maggioranza di repubblicani minimizza il legame tra incendiaria retorica politica (e conseguente delegittimazione delle istituzioni) e rischio di ulteriori violenze. E sempre da sondaggi, una larga maggioranza di repubblicani continua a credere nel mito della “vittoria rubata” e dichiara di avere poca o nulla fiducia nelle procedure elettorali.

Nel mentre è partito un barrage di ordini esecutivi di Biden. Importanti e significativi, ma anche vulnerabili a ricorsi e – in quanto privi di codificazione legislativa – intrinsecamente vulnerabili. La prima grossa partita al Congresso la si giocherà sul mega-stimolo anti-Covid di 1900 miliardi di dollari proposti da Biden. Che contiene molti elementi importanti. Ma che sarebbe un pelo più credibile, e meno contestabile, se non prevedesse molto demagogicamente di distribuire contributi una tantum – dal limitato effetto moltiplicatore e dalla nulla equità redistributiva – anche a individui e famiglie con redditi alti o medio-alti, toccati o poco o nulla dalla pandemia(fino a 310mila dollari di reddito familiare annuo, se restano invariate le regole dell’ultimo stimulus).

Il discorso inaugurale di Biden

Un discorso forte, ma non alto. Pragmatico, onesto e chiaro. Con nessuna concessione al lirismo. Lontano anni luce sia da quelli – dotti e sermonici – di Obama che da quello – cupo e distopico – di Donald Trump. Il discorso inaugurale di Joe Biden non entrerà negli annali; non sarà studiato nei corsi di retorica politica; difficilmente sarà citato dai suoi successori. E però è stato un discorso importante. Un discorso agli Stati Uniti e al mondo, all’opinione pubblica interna e a quella internazionale, come è inevitabile che sia quando parla il leader della più grande potenza mondiale.

Tre sono stati i suoi elementi centrali, retorici e sostanziali. Il primo può essere riassunto nella formula del patriottismo progressista. Biden è stato esplicito e diretto nel sottolineare le difficoltà profonde della democrazia statunitense: della sua intrinseca fragilità; di una sua precondizione – l’unità – fattasi sempre più sfuggente ed elusiva; della sua vulnerabilità alle bugie e alle verità alternative. Ma questa sofferenza della democrazia è stata inserita dentro il cammino – sempre precario, sempre incompleto, sempre in divenire – dell’esperimento statunitense. Di un’esperienza storica testata a più riprese; e che oggi deve fare i conti con la minaccia di quella che il neo-Presidente ha definito una “guerra invicile”: una frattura tra due Americhe che non si riconoscono più legittimità reciproca e finanche diritto di cittadinanza. Dalla quale però è possibile e necessario uscire, in un altro passaggio di questo cammino perennemente imperfetto e in divenire; di quella che lo storico Alan Brinkley, in un sua celebre sintesi, definì la “nazione incompiuta” (The Unfinished Nation).

Il secondo elemento è stato rappresentato dall’ostentato pragmatismo, espresso anche in uno stile retorico semplice, essenziale e ostentamente concreto. Biden ha offerto molti esempi precisi di sfide e di politiche che la sua amministrazione sarà chiamata ad affrontare e promuovere: l’ambiente, la diseguaglianza, la pandemia ovviamente, e il “razzismo sistemico”, con un esplicito riferimento alla minaccia rappresentata dal suprematismo bianco e dal “terrorismo interno”.

Sfide, queste, a cui si può e deve rispondere solo attraverso l’“unità”, la parola chiave più ricorrente (dieci volte) nel discorso e il suo pilastro retorico più importante. Solo tornando ad agire come “una nazione”, plurale, diversa e articolata anche nei convincimenti politici, ma unità di fronte ai problemi che deve affrontare, nel rispetto delle istituzioni, nella devozione ai suoi ideali e, appunto, nella difesa della sua democrazia.

Qui, il rigetto esplicito della logica divisiva, anti-istituzionale e, in alcuni passaggi, finanche eversiva di Donald Trump è stato evidente. E Biden non lo ha nascosto, anche nel suo esplicito riferimento alla violenza con la quale solo due settimane fa, ha sottolineato, si tentò di “erodere le fondamenta stesse” del Campidoglio e della democrazia. E però è su questo ultimo punto – su questo richiamo all’unità che rimanda ai principi del nazionalismo civico, costituzionale e inclusivo – che il discorso di Biden ha assunto tratti involontariamente utopici. Perché le divisioni e le fratture sono profonde e immensamente difficili non solo da sanare, ma anche solo da gestire; perché esse predatano Trump, in parte lo spiegano e sono state ulteriormente acuite ed esacerbate da questi ultimi quattro anni; e perché trovano incarnazione politica e istituzionale in due partiti sempre meno capaci di dialogare, in due elettorati chiusi in bolle impermeabili e auto-sufficienti, in maggioranze congressuali fragili e strettissime, in tanti governi statali controllati dai repubblicani già pronti a dare battaglia contro i provvedimenti di Biden. Ecco perché la reiterata invocazione all’unità di Biden è parsa in ultimo un segno di debolezza più che di forza; un grido disperato più che un assunto convinto. Di un Presidente che oggi ha di fronte a sé un compito davvero improbo.

Il Giornale di Brescia, 21.1.2020

30 anni dal primo Iraq

Il mio primo corso all’università lo insegnai a Unibo (campus di Forlì) nel 2002. Ricordo bene verso la fine del corso quando chiesi – pensavo in forma retorica – agli studenti se si ricordavano della prima guerra del Golfo e i loro sguardi stupefatti, finché una ragazzina mi disse: “Prof., avevamo 7 anni….”.

È uno dei drammi della nostra professione: che tu invecchi inesorabilmente ma davanti hai sempre lo stesso pubblico (quelli di quest’anno sono nati dopo l’11 settembre …). Tre decenni sono passati da quella guerra. Che aprì una fase forse più breve di quanto non credessimo. Fase di ri-legittimazione della guerra, indubbiamente, che conobbe una forte accelerazione negli anni successivi e che si è probabilmente chiusa con Iraq 2003 e Libia 2011; di una guerra invisibile – con l’embedded journalism e il rigido controllo d’informazioni e immagini – e il più possibile asimmetrica, asettica e indolore per chi la conduceva. Ma anche fase di dibattito intenso su assiomi, condizioni e praticabilità della “guerra giusta”, con Bobbio, Habermas, Walzer e altri che la giustificano e sperano sia la premessa di un “nuovo ordine mondiale”, nella celebre (e infelice) definizione di Bush Sr., basata sul primato del diritto internazionale e la centralità dell’ONU. Con gli Usa – non ancora travolti dall’ubriacatura dell’interventismo/eccezionalismo umanitario che seguirà (e sui quali l’ombra del Vietnam pesa ancora molto) – che adottano un corso d’azione estremamente cauto, costruendo una grande coalizione internazionale, dialogando con l’Urss, riuscendo a far approvare diverse risoluzioni al consiglio di sicurezza, e dove il dibattito sull’intervento – anche nelle forme caute e legalitarie adottate – fu straordinariamente intenso, tanto che la risoluzione congiunta che autorizzava l’uso della forza (e l’applicazione della 678 del CdS delle Nazioni Unite) fu votata 250 a 183 alla Camera dei Rappr e di strettissima misura, 52 a 47 al Senato, con i voti contrari di Dems pesantissimi come Daschle, Dodd, Kennedy, Nunn e, addirittura, Kerry (Gore votò  a favore). E con Bush Sr. e Scowcroft che pochi anni dopo (nel 1998) avrebbero spiegato bene perché fu opportuno fermarsi dopo la liberazione del Kuwait ed evitare un’azione finalizzata a rovesciare Saddam (il che rimanda al solito problema noto a molti di noi dei figli che non ascoltano i padri …)

IL PUNTO

IL PUNTO

  • Pence e i repubblicani non vogliono utilizzare il XXV emendamento per sollevare Trump dall’incarico. Vi sono legittime perplessità costituzionali; vi è soprattutto la consapevolezza che uno scontro frontale con Trump rischia di spaccare tanto la base quanto la rappresentanza congressuale. Cosa sperano i repubblicani? Probabilmente di negoziare una qualche uscita dolce di Trump – magari facendo leva su strumenti negoziali che noi non conosciamo, ma possiamo immaginare (dossier, baratti su possibili indagini future e altro). Di certo non possono permettersi al momento di alienare un elettorato in larga parte trumpizzato, men che meno i rappresentanti alla Camera molti dei quali agiscono condizionati dalla sorta di ciclo elettorale permanente in cui sono costretti a operare (e ciò aiuta anche a spiegare il minor numero di defezioni alla Camera bassa, anche dopo l’insurrezione). L’impressione forte è che si trovino però in un vicolo cieco: per emanciparsi da Trump e dal trumpismo (che tanto hanno contribuito a creare) dovrebbero denunciare una retorica che si rivela straordinariamente mobilitante per un elettorato però strutturalmente minoritario; facendolo, produrebbero divisioni e fratture dentro il partito e nell’elettorato, accettando quindi sul breve periodo una lunga marcia nel deserto fatta d’inevitabili sconfitte elettorali. E quindi la strada più conveniente pare essere quella di stemperare le tensioni, convincere Trump a farsi gradualmente da parte e – sfruttando i numeri di cui dispongono al Congresso e nei governi statali – avviare l’inevitabile azioni di ostruzionismo nei confronti dell’amministrazione Biden.

 

  • I democratici hanno avviato le procedure d’impeachment alla Camera. Quali le motivazioni e gli obiettivi? Credo che agiscano: a) convincimenti costituzionali, che stiamo parlando di un Presidente che ha incitato alla sedizione e concorso – lo scopriamo ogni giorno di più – a creare una situazione incredibilmente pericolosa per i membri del congresso, a partire da Nancy Pelosi e Mike Pence; b) convenienze politiche: è un modo per mettere ancor più con le spalle a muro i repubblicani, che – da sondaggi – le percentuali di americani che difendono l’indifendibile, ovvero l’insurrezione dell’altro giorno, rimangono incredibilmente alte, ma la follia cui abbiamo assistito sembra avere finalmente danneggiato il Presidente e posto le premesse per la prima, significatica erosione del suo consenso a destra; c) un obiettivo concreto, che se l’impeachment giungesse a termine poi il Senato a maggioranza semplice potrebbe votare l’interdizione di Trump a qualsiasi carica elettiva. E però, almeno di nuove mattane di Trump (che non possono essere assolutamente escluse), o di rivelazioni ulteriori sul suo ruolo rispetto a quanto accaduto, non sembrano davvero esserci i voti per la maggioranza qualificata dei 2/3 necessari a far passare l’impeachment al Senato: ci vorrebbero 17/18 senatori (a seconda se si voti prima o dopo l’insediamento dei due neoeletti della Georgia) e per il momento se ne contanto solo 4/5 disposti a farlo (i soliti noti – Romney, Murkowski, Sasse, Toomey, forse Collins). E un secondo impeachment che andasse a vuoto, magari occupando l’attività del Senato e le attenzioni dell’opinione pubblica durante le settimane successive all’insediamento di Biden, non sembra davvero ideale per il neo-Presidente e per i democratici.

 

  • Intanto l’FBI fa uscire un preoccupato rapporto sulla giornata dell’insediamento, nel quale si parla di minacce credibili a Biden, Harris e Pelosi e manifestazioni certe (e in numerosi casi armate) non solo a DC ma in tutte le 50 capitali statali. Nel mentre proseguono a cascata le dimissioni di membri dell’amministrazione Trump che denunciano le responsabilità del Presidente rispetto a quanto avvenuto il 6 gennaio (che pure la DeVos si sia sentita obbligata a dimettersi dà la cifra, credo, della situazione in cui ci si trova); responsabilità che ogni giorno sembrano farsi peraltro più chiare. Ma il problema sembra oggi essere la sospensione dell’account twitter di Trump …

“MA ANCHE ….”.  DI TWITTER E DI TRUMP 

Che i social pongano problemi politici ed etici monumentali non è cosa che scopriamo oggi. Piazze virtuali pubbliche, ma in mano a privati, capaci di condizionare come nessun’altra la discussione , il flusso d’informazioni e quindi il dibattito pubblico e quello politico; attori che operano in condizioni di quasi monopolio globale, soggetti a regolamentazioni debolissime o inesistenti; soggetti che hanno quindi maturato un potere gigantesco, da cui i decisori ultimi tendono a dipendere sempre più, vedendo quindi ulteriormente limitati i loro poteri di controllo e disciplina.

E però, che all’11 gennaio 2020, dopo quello che abbiamo visto solo pochi giorni fa, il problema non sia Trump ma Twitter (o, per i furbissimi cerchiobottisti che si sentono molto sofisticati ed equilibrati, siano l’uno e l’altro in egual misura), non sia un Presidente che usando i social ha di fatto incitato a un’insurrezione (e quindi alla più grave delle violazioni della legge) che ha provocato quel che ha provocato – e, che, ora sappiamo, avrebbe potuto provocare molte, molte più vittime – ma sia un social che in virtù di ciò gli sospende l’account, beh tuttociò ci dà la cifra di come siamo messi (parentesi nella parentesi per chi tuona alla censura: il Presidente in carica – sebbene, da quanto ci dicono, in piene convulsioni da astinenza Twitter – ha mille modi ovviamente per continuare a raggiungere centinaia di milioni di persone, a partire da un banalissimo comunicato stampa …). Che poi in molti casi quelli del peggio twitter di Trump siano gli stessi che per 4 anni hanno giustificato o addirittura celebrato le bestialità trumpiane, coerenti e propedeutiche a quelle ultime che hanno portato all’assalto al Congresso, è non poco indicativo: il consueto diversivo del “ma anche …” e un modo in fondo comodo comodo per evitare di fare i conti con quanto hanno scritto e detto.