Mario Del Pero

Il ritorno degli Stati Uniti

Questa è una sintesi dell’intervento che terrò sabato al festival Con-Vivere a Carrara (http://www.con-vivere.it/) e che “Europa” ha pubblicato oggi sulle pagine della Cultura

Libertà e Impero sono termini e categorie che si sono sempre
intrecciate nella storia degli Stati Uniti. Fu per separarsi da un
impero che le colonie nordamericane della Gran Bretagna combatterono
una guerra per l’indipendenza e per una libertà definita in modo nuovo
e per certi aspetti radicale. I nuovi Stati Uniti d’America
procedettero però subito a edificare un altro impero – un impero “della
e per” la libertà, come affermò Thomas Jefferson – per proteggere
questa fragile e contraddittoria libertà, ma anche per consolidarla e,
infine, diffonderla e universalizzarla. La partecipazione degli Usa
alla corsa imperiale di fine ‘800 rappresentò non solo la via per
entrare pienamente nel mondo, partecipando alla “missione” che le
potenze “civilizzate” si erano arrogate, ma anche un modo per difendere
la libertà repubblicana, minacciata da tensioni sociali e politiche
interne e da una crisi economica che non aveva precedenti nella storia
del paese. Nel corso del ‘900, l’inarrestabile ascesa della potenza
statunitense si combinò con l’affermarsi di un discorso anti-imperiale
che avrebbe dominato il dibattito pubblico e politico negli Stati
Uniti. Nondimeno, questo ostentato anti-imperialismo si conciliava solo
in parte con la piena maturazione di una superiorità economica,
culturale e militare destinata a fare degli Stati Uniti una potenza
ancor più imperiale.

Nell’impero
peculiare e non più territoriale che gli Usa avrebbero edificato dopo
la Seconda Guerra Mondiale tornava a manifestarsi il convincimento, più
volte rimodulato nella storia statunitense, che esistesse un legame
strettissimo tra la sicurezza degli Stati Uniti, la protezione della
libertà repubblicana e l’estensione dell’influenza statunitense nel
mondo, nelle varie forme in cui questa poteva essere promossa.
Nel
Ventesimo secolo questo connubio tra espansione e sicurezza/libertà ha
funzionato con successo perché il soggetto imperiale – gli Stati Uniti
– ha mostrato di essere dotato di un’impareggiabile capacità egemonica.
Gli Usa sono risultati talmente magnetici e attraenti (come modello),
talmente superiori (come potenza) e talmente convincenti (come
interlocutore) che gli altri stati hanno infine accettato la
legittimità del loro primato e della loro leadership.
È difficile
trovare nella storia un altro paese capace quanto gli Stati Uniti di
possedere questi attributi e di costruire per il loro tramite
un’egemonia negoziata e consensuale, e pertanto doppiamente efficace e
pervasiva. Il tramite per il quale si è esercitata la leadership
statunitense è stato rappresentato dalla rete d’interdipendenze globali
sviluppatesi nel corso del ‘900 e parzialmente istituzionalizzate con
le norme e le organizzazioni che hanno vieppiù regolamentato le
relazioni internazionali. Della crescente normazione di un ordine
mondiale liberale, gli Usa sono stati indubbi protagonisti. Congruente
con i valori statunitensi e funzionale agli interessi di Washington,
questo processo ha permesso agli Stati Uniti di dispiegare il proprio
primato e d’includervi, con un ruolo di partner minori e
inevitabilmente subordinati, nuovi e vecchi rivali. Ma quest’ordine ha
finito per imporre vincoli e costrizioni agli stessi Usa, che si sono
trovati inclusi in una rete di interdipendenze plurime alle quali anche
l’unica superpotenza rimasta doveva in ultimo soggiacere.
Il
paradosso è evidente. Gli Usa hanno costruito ed ampliato la propria
egemonia per il tramite dell’interdipendenza; questa interdipendenza,
però, ha finito per limitare la sovranità e, in ultimo la libertà
d’azione, degli stessi Stati Uniti. La tensione si è fatta
particolarmente forte nell’ultimo trentennio, in concomitanza con il
ritorno all’interno degli Stati Uniti di un discorso fortemente
nazionalista che fa del ripudio delle organizzazioni internazionali e
del multilateralismo uno dei suoi tratti distintivi. Con doloso
impegno, George W. Bush ha proceduto a delegittimare le fondamenta di
un ordine internazionale che in passato aveva ben servito interessi e
ideali statunitensi. Facendolo, ha eroso l’elemento fondamentale
dell’egemonia statunitense.
Obama offre oggi un messaggio potente,
ecumenico e inclusivo, che mette al centro della scena la stessa
improbabile biografia del presidente: meticcia, sincretica e, per molti
aspetti, globale. Con Obama l’America non solo è tornata nel mondo, ma
è tornata a rappresentarsi come il mondo. Il successo da questo punto
di vista è inequivoco e fino a qualche tempo fa assolutamente
inimmaginabile. Si tratta però di un successo parziale e non
sufficiente, che deve essere consolidato attraverso il ripensamento e
il rafforzamento di un ordine internazionale oggi fragile e in larga
misura delegittimato.
E che passa, in ultimo, dalla capacità di
Obama di tornare a rendere accettabile e, addirittura, invocata una
leadership, quella degli Stati Uniti, che non ha sostituti potenziali,
ma che suscita oggi forti ostilità e resistenze.