Mario Del Pero

Guerre Invisibili

Checché
ne dicano i commentatori come Robert Kagan, sempre pronti a celebrare un’America
marziale, pugnace e virile, agli americani la guerra non piace. Come è normale
e inevitabile per qualsiasi democrazia. A chi può mai piacere l’idea di vedere
il fiore della propria gioventù rischiare la vita, magari in paesi lontani,
ingrati e sconosciuti? Chi può dichiararsi felice di vedere risorse, umane e
materiali, fagocitate dalla guerra: dalla sua preparazione e dalla sua condotta?

Se
possibile, gli Stati Uniti rappresentano più di qualsiasi altra potenza
l’antitesi della guerra. Nascono rigettando le guerre europee e magnificando il
pacifico elemento commerciale, capace di legare gli stati in un abbraccio
virtuoso e benefico. Il loro essere anti-Europa si è manifestato anche, se non
soprattutto, nella sottolineatura critica, canonizzata poi nella retorica
politica statunitense, del legame inestricabile tra la guerra e l’esperienza
storica europea.

L’America
la guerra ha poi imparato rapidamente a farla: per conquistare l’indipendenza,
per difenderla, per espandersi e conquistare. Per proiettare la propria
influenza e il proprio modello nel mondo. Ma l’influenza di un discorso
anti-bellico e, non di rado, anti-militarista è rimasta. Anche nelle
giustificazioni e nelle rappresentazioni, la guerra dell’America è divenuta
qualcosa d’altro: un’operazione di polizia, una guerra per la libertà, per la
democrazia, per la stessa umanità. In taluni casi un’anti-guerra: una guerra
contro la guerra, per “porre fine a tutte le guerre”, come affermò il
presidente Woodrow Wilson dopo aver portato gli Usa nel primo conflitto mondiale.

L’ascesa
degli Stati Uniti a potenza egemone del sistema internazionale ha creato una
sorta di schizofrenia nel rapporto tra il paese e la guerra. I temi e simboli
della sicurezza nazionale dominavano il dibattito pubblico;  vi era però una crescente ritrosia a
intraprendere conflitti potenzialmente lunghi, costosi e dolorosi. Si riduceva
cioè progressivamente il capitale di disponibilità al sacrificio. Qualcosa di
assolutamente normale e fisiologico per una democrazia; a maggiore ragione per
una democrazia prospera e vitale come quella statunitense. Ma qualcosa anche di
molto problematico per una grande potenza, spesso condotta da leader convinti
che il paese dovesse promuovere una politica estera ambiziosa, globale e
interventista.

Questa
schizofrenia si è paradossalmente intensificata dopo l’11 settembre. Che ha
conferito a chi guidava gli Stati Uniti un nuovo capitale di disponibilità al
sacrificio, individuale e collettivo, in larga misura poi sperperato. E che ha
portato il paese in una condizione – rivelatasi politicamente insostenibile – di
guerra permanente e apparentemente infinita. L’inchiesta del “Washington Post”
sul labirintico mondo parallelo costruito dall’intelligence statunitense per combattere la guerra globale al
terrorismo evidenzia quanti danni possa produrre questa schizofrenia. Per
essere combattuta, la guerra – a maggior ragione una guerra senza fine – deve
essere il più possibile invisibile. Non può in nessun modo essere una guerra di
popolo, con un servizio di leva obbligatorio: un’opulenta democrazia non la
potrebbe tollerare. La guerra la fanno i poveracci (in taluni casi non
statunitensi che in cambio della leva ottengono un percorso accelerato alla
cittadinanza). E la fanno – come mostra il “Washington Post” nel caso dell’intelligence – i costosissimi contractors, mercenari del nuovo
millennio che possono fare il colpo della vita – e guadagnare quanto mai
avrebbero sognato – o perderla, quella vita, senza che nessuno sia chiamato a
renderne conto. Senza le cerimonie pubbliche, i lutti e le conseguenti introspezioni
collettive che raramente giovano al consenso di chi sta al potere.

È
una guerra fatta non di rado in nome della democrazia, ma che finisce per
ferire l’essenza stessa della democrazia statunitense. Creando isole torbide,
che sfuggono alle regole. Imponendo un velo opaco che non permette ai cittadini
di vedere la guerra, la sua condotta, le sue conseguenze e i suoi costi.
Deresponsabilizzando un potere politico non più chiamato a rendere conto delle
proprie decisioni. Ma è anche l’unica guerra che la più vecchia, farraginosa e
potente democrazia del mondo sembra oggi capace di condurre.

[Il Mattino, 22 luglio 2010]