Mario Del Pero

Obama: il Messia che non può fare miracoli

“L’economia sta crescendo,
ma non veloce quanto dovrebbe”, ha affermato Obama durante un’intervista alla
rete televisiva NBC. E d’altronde, ha continuato il presidente, non “esistono
bacchette magiche”. In sé un’affermazione normale, fin quasi scontata, per un
capo di stato impegnato a fronteggiare una delle crisi più complesse e
difficili degli ultimi due secoli. Corrette o meno siano le misure adottate – e
su questo la discussione rimane aperta – nessuno avrebbe potuto pensare che
dalla recessione apertasi nel 2007-2008 si sarebbe usciti tanto facilmente.
Alcuni dati, poi, non possono che confortare Obama e il suo team. Pur con una
crescita inferiore alle aspettative nel secondo quadrimestre, la proiezione per
il 2010 prevede un aumento del PIL del 2,4%, comunque significativo, in termini
assoluti e relativi. Secondo le stime più recenti di un autorevole organismo
indipendente come il Congressional Budget
Office
– le cui valutazioni sono rispettate a destra come a sinistra – il
piano di stimolo messo in campo nel febbraio 2009 ha permesso la creazione di circa
3 milioni di posti di lavoro nel secondo quadrimestre del 2010, raggiungendo
quindi gli obiettivi dell’amministrazione e offrendo una risposta fondamentale alla
crisi.

Eppure l’immagine
dell’Obama che non “ha la bacchetta magica” stride con quella dell’Obama “Messia”,
così diffusa dentro e ancor più fuori gli Stati Uniti (fu in fondo il
settimanale tedesco “Der Spiegel” a offrire una copertina emblematica dedicata
a Obama, titolata appunto “Der Messiah faktor”). E ci mostra un’intrinseca
contraddizione della narrazione che ha accompagnato tutta la parabola politica
di Obama. Messianica, questa narrazione, lo è stata davvero: nelle aspettative
generate; nella promessa di cambiamento; nella sua capacità di rivitalizzare
una volta ancora il mito americano. E però i contenuti politici di tale narrazione
sono sempre stati moderati, inclusivi, bipartisan. Centrati cioè sulla promessa
di superare contrapposizioni e polarità; di archiviare la parentesi, radicale e
ideologica, di Bush; di riportare alla Casa Bianca competenza, rigore e
sobrietà.

Quella obamiana è sempre
stata una narrazione nella quale convivevano messianesimo e pragmatismo. Era
anzi proprio il pragmatismo, così lontano dal discorso ad alto contenuto
ideologico di Bush e dei neoconservatori, a sostanziare la messianica promessa
della trasformazione: del “yes we can”. Alla Casa Bianca, però, quel “can” si è
spesso trasformato in “can not”. Perché è inevitabile che solo una parte delle
promesse di una campagna elettorale vengano realizzate; perché la portata della
crisi è tale che l’uscita non può che essere graduale e dolorosa; perché le
ricette miracolose, appunto, non esistono, né a Washington né altrove. Ma anche
e soprattutto perché nell’America polarizzata e divisa di oggi non vi è spazio
per dialoghi e collaborazioni bipartisan, come la radicalizzazione del partito
repubblicano ben rivela.

Lo scarto tra narrazione e
pratiche, tra desideri e possibilità, si è rivelato troppo ampio per essere
colmato. E se un errore politico Obama ha compiuto è stato certo quello di non averlo
capito per tempo, e di non aver capitalizzato a dovere l’immensa impopolarità
di Bush e dei repubblicani. Col suo atteggiamento professorale e responsabile,
Obama ha permesso che nell’immaginario degli americani la crisi diventasse “la
crisi di Obama” così come le guerre in Iraq e in Afghanistan sono diventate le
“guerre di Obama”.

Di fronte a una campagna
elettorale sempre più aspra e intensa, però, Obama sembra aver cambiato
approccio. Non solo ricordando come nessuno abbia in mano “bacchette magiche”,
ma anche rimarcando con forza le gravi colpe del suo predecessore, come ha fatto
sempre domenica a  New Orleans, nel
quinto anniversario del disastro causato dal ciclone Kathrina: “un disastro
naturale, ma anche un disastro prodotto dall’uomo”, ha affermato Obama, “un
vergognoso fallimento del governo che ha lasciato abbandonati e da soli un
numero incalcolabile di uomini, donne e bambini”. Scopriremo nei mesi a venire
– e in particolare alle elezioni di novembre – se questa svolta sia destinata a
pagare o se sia stata troppo tardiva.

[Il Mattino, 30 agosto 2010]