Mario Del Pero

Il Populismo del Tea Party

La storia americana è scandita da
“insorgenze” populiste contro l’establishment politico, economico e
intellettuale. Pur con tutte le sue peculiarità, il movimento conservatore del Tea Party è per molti aspetti l’ultima manifestazione
di un populismo che nell’ultimo secolo si è spostato sempre più verso destra.

Il collante del populismo del Tea Party è tanto semplice quanto
potente: la denuncia del mondo politico, delle sue istituzioni, dei suoi
esponenti. A essere preso di mira è soprattutto il potere federale e la sua
espressione ultima – il Presidente – accusati di tradire il paese, violando i
precetti basilari della costituzione.

È la politica corrotta,
inefficiente, costosa quella che viene presa di mira dal Tea Party. E a essere denunciato con toni particolarmente
aspri  è un potere federale ritenuto
invasivo, produttore di leggi che limitano la libertà di scelta, soffocano la
capacità d’impresa, paralizzano l’America: che, in ultimo, fanno morire il
sogno americano.

Si tratta di un messaggio
populista particolarmente incisivo nella sua pars destruens, soprattutto in una fase di difficoltà come questo,
dove il vento dell’anti-politica è inevitabilmente forte e finanche
comprensibile. Ma si tratta di un messaggio debole e contraddittorio nel
momento della proposta politica. Nel populismo del Tea Party convivono infatti posizioni assai diverse, accomunate da
un rabbioso (ancorché spesso incoerente) rigetto della politica e delle sue
forme, ma spesso in contrasto le une con le altre. Riesumando un dibattito
antico quanto gli Stati Uniti s’invoca un primato del potere statale su quello
federale, laddove alcune delle politiche più costose, inefficaci e clientelari avvengono
proprio a livello statale. Ci si appella alla libertà d’impresa, ma si chiede
protezione dalla concorrenza economica di soggetti non americani oltre che
leggi restrittive in materia d’immigrazione. Si è favorevoli al mantenimento di
un ampio apparato militare, che di per sé è particolarmente oneroso e presuppone
un’ulteriore estensione del potere federale. Si magnifica la libertà
individuale – vera essenza dell’esperimento democratico statunitense – ma poi
si chiedono provvedimenti assai restrittivi della stessa libertà, dall’aborto
alle politiche contro il terrorismo.

Non è un caso che uno dei
principali esponenti del Tea Party
sia l’ex candidata alla vice-presidenza Sarah Palin, a suo tempo governatrice
di uno stato, l’Alaska, che questa contraddizioni le incarna alla perfezione.
Uno stato che ha sempre vissuto di sussidi federali quasi imbarazzanti per
entità e modalità di gestione, ma dove il discorso politico è dominato da una
retorica populista di denuncia dell’establishment washingtoniano e di
celebrazione della propria diversità e autonomia.

Sul breve periodo il populismo
del Tea Party può fare molto male,
come hanno scoperto gli esponenti moderati del partito repubblicano e come,
presumibilmente, scopriranno Obama e i democratici alle elezioni di medio
termine del novembre prossimo. Elezioni, queste, dove è spesso vantaggioso
radicalizzare il messaggio politico per mobilitare appieno la propria base. Se
valutato però fuori da un’ottica di breve periodo, la sorte del Tea Party difficilmente sarà diversa da
quelle di altre “insorgenze” populiste della storia statunitense. Perché le sue
contraddizioni si manifesteranno ancor più chiaramente; perché in positivo
offre poco o nulla; più di tutto, perché il suo messaggio di chiusura e paura,
in particolare sull’immigrazione, va a scontrarsi con un’America che cambia, si
fa più ricca e complessa, anche in termini di equilibri tra i suoi diversi
gruppi etnici e razziali. Un partito repubblicano ostaggio di una destra
radicale e, di fatto, solo bianca, potrà vincere le elezioni di mid-term del
2010, ma non potrà mai ambire a essere maggioranza nel paese.

[Il Giornale di Brescia, 25 settembre 2010]