Mario Del Pero

Le elezioni di mid-term e la difficoltà di governare

Il 2 novembre l’America sarà
chiamata a eleggere la Camera dei Rappresentanti e un terzo del Senato, oltre a
numerosi governatori e assemblee legislative statali. Tutti i sondaggi danno
per certa una vittoria dei repubblicani. Può anche darsi che Obama e i
democratici riescano nelle prossime settimane a mobilitare i propri elettori, a
sfruttare il radicale dilettantismo dei candidati repubblicani del Tea Party e
a limitare conseguentemente i danni. Non potranno, però, evitare una sconfitta.
Che potrebbe riportare il Congresso, o almeno uno dei due suoi due rami, in
mano ai repubblicani, a solo due anni dalla nettissima vittoria elettorale
democratica del 2008. E che – dato, in prospettiva, politicamente ancor più
significativo – permetterebbe ai repubblicani di governare molti stati.

Quanto accaduto dal 2008 a oggi
aiuta a spiegare questa probabile debacle dei democratici e del Presidente.
Obama si è rivelato, paradossalmente, cattivo comunicatore: non è stato capace
di offrire una narrazione della crisi capace di generare consenso; non ha
sfruttato a dovere il capitale politico lasciatogli in dote dagli errori di
Bush e dall’immensa impopolarità dei repubblicani; il suo messaggio, asettico e
bipartisan, non ha mai fatto breccia tra un elettorato arrabbiato e spaventato.
La coalizione che lo ha sostenuto si è dimostrata composita e incapace di
condividere una piattaforma comune, ancorché minima. I repubblicani non hanno
offerto alcuna sponda, rivelando una rigidità prossima all’irresponsabilità.
Infine, la drammatica crisi economica, per quanto mitigata dai provvedimenti di
Obama (il salvataggio delle banche e gli aiuti straordinari all’economia), ha
prodotto tassi di disoccupazione come non si vedevano da decenni, mentre
continuavano a crescere debito e deficit, già aumentati esponenzialmente negli
otto anni di Bush.

Eppure, i tanti fattori
contingenti non bastano per spiegare il probabile esito delle prossime elezioni
di mid-term. Come non basta la considerazione, corretta ma parziale, che si
tratterebbe di un dato normale, e finanche fisiologico, nel sistema politico
statunitense, dove il partito del Presidente eletto soffre sempre di una
flessione dopo il primo biennio. A monte, sembrano infatti agire due fattori
più profondi, quasi strutturali.

Il primo ha a che fare con il
cambiamento in atto in America. Un cambiamento politico, demografico e
culturale che aveva indotto alcuni studiosi a presentare il 2008 come un vero e
proprio riallineamento elettorale, destinato a produrre una solida e duratura
maggioranza democratica. Appare oggi chiaro che quel cambiamento è più parziale
e limitato di quanto non si ritenesse; che i suoi effetti politici siano più
tenui e meno netti del previsto. L’America si fa più diversa – si pensi al peso
della minoranza ispanica – e, anche, più liberal
sui temi etici, tanto che in molte delle campagne elettorali in corso i
candidati democratici cercano di mettere il diritto all’aborto al centro del
dibattito, consapevoli della vulnerabilità repubblicana su questo. Ma è
un’America dove rimane marcata l’ostilità, quasi pregiudiziale, a una presenza
forte della mano pubblica, anche solo con una funzione di regolamentazione
della vita economica. Un’America dove, anzi, la forza dell’anti-politica
populista rende ancor più impopolare il governo federale e l’idea che esso
possa svolgere un ruolo attivo e interventista, dalla sanità all’istruzione,
dalle infrastrutture (sempre più obsolete) alla difesa dell’ambiente.

Un secondo fattore, che accomuna
gli Usa ad altre democrazie occidentali, si somma però al primo. È la
difficoltà di governare oggi, nei tempi sempre più ristretti di un dibattito
politico che genera aspettative sul breve irrealizzabili, dove lo scontro e il
rifiuto di collaborare sono elettoralmente convenienti e dove il ciclo continuo
di notizie e di sondaggi pesa, come spade di Damocle, su chi ha la
responsabilità del governo. Obama, oggi lo si dimentica, ha conseguito successi
importanti, dalla riforma del sistema sanitario al ritiro dall’Iraq, dalle
leggi sul sistema finanziario a politiche economiche capaci di arrestare la
recessione e far ripartire l’economia. Ciò, però, non basta: i suoi
sostenitori, soprattutto a sinistra, chiedevano di più; i suoi oppositori
denunciano, grottescamente, una presunta deriva socialista del paese; i tanti
indecisi indipendenti guardano con preoccupazione al deterioramento dei conti
pubblici. Tutti chiedono soluzioni immediate e risposte precise alle proprie preoccupazioni.
Soluzioni che la politica non ha e non può avere; ma soluzioni rese ancor più
difficili quando i tempi della politica e quelli elettorali tendono a
biforcarsi in modo così marcato come avviene oggi. Se i repubblicani dovessero
conquistare la maggioranza al Congresso, per la terza volta consecutiva (primo
caso nella storia statunitense) avremo una situazione di governo diviso: un
Presidente in carica dovrebbe cioè collaborare con un Congresso controllato dal
partito avversario. E questo dato ci mostra quanto difficile sia governare
oggi, negli Stati Uniti e non solo.

Il Mattino, 11 ottobre 2010